Qualcuno inizia a pensare seriamente che Netflix farà all’industria dei media quello che Amazon ha fatto al commercio al dettaglio. La rivoluzionerà. L’ascesa di Netflix rammenta quella di Donald Trump, e viceversa. All’inizio ignorato, poi deriso, poi grandemente sottovalutato, poi considerato un fenomeno da Circo Barnun e infine tutti ne hanno una paura che sta per diventare panico. Il paradosso è che mentre Trump viene combattuto apertamente da mezzo mondo (il Parlamento inglese lo ha dichiarato persona non grata a nord delle scogliere di Dover), i grandi conglomerati media non possono fare la guerra a Netflix, né boicottarlo, né ignorarlo. Non possono fare niente senza autodanneggiarsi. Netflix contribuisce in modo per niente indifferente ai loro fatturati, acquistando diritti di riproduzione e di ritrasmissione dei programmi televisivi e dei film. Con i suoi 70 milioni di abbonati in 190 paesi del mondo ha un’audience pagante grande quasi come la TV via cavo negli USA.
Per i grandi gruppi tradizionali Netflix è un “frenemy”, mezzo amico e mezzo nemico; una indovinata definizione coniata dal funambolico capo di WTT, sir Martin Sorell. Ancora nessuno sa come trattare con un frenemy. Murdoch tenderebbe a combatterlo apertamente con azoni robuste di boicotaggio, altri, come Jeffrey Bewkes di Time Warner, pensano di contrastarlo con servizi direttamente concorrenti, altri ancora sono pietrificati da quello che sta succedendo. Una cosa è certa: sono tracorsi i tempi in cui Bewkes paragonava Netflix all’esercito albanese che vuole conquistare il mondo, riecheggiando la famosa battuta di Stalin rivolta agli alleati che a Yalta chiedevano un ruolo per il Vaticano: “Quante divisioni ha il Papa”. Zero. Quanti contenuti ha Netflix? Zero. Adesso non più.
La battaglia degli Originals
Netflix investirà la bellezza di 6 miliardi di dollari nella produzione di contenuti originali. A questo scopo ha accesoanche un prestito di 1 miliardo di dollari. Il maggior competitor di Netflix su questo terreno, HBO, l’ammiraglia della TV via cavo negli USA, ha risposto portando il proprio investimento nel 2016 1,8 miliardi di dollari in contenuti (è una valutazione di Morgan Stanley). Amazon non sta certamente alla finestra. Il gigante di Seattle, che ha raccolto degli inattesi successi di critica e pubblico con le sue serie originali, ha detto di aver speso, nel 2015, 3 miliardi di dollari in contenuti per il suo servizio di streaming di musica e video e che intende aggiungere ogni anno un miliardo la questo investimento.Al Sundance 2016 Netflix e Amazon hanno fatto manbassa di film che saranno subito trasmessi sul servizio di streaming in contemporanea con la visione nelle sale, così da rimuovere il fastidioso fenomeno del windowing che fa sì che il consumatore paghi più volte per lo stesso contenuto. Si parla di cifre mai viste nella storia dell’industria culturale e dello spettacolo. Sullo streaming si gioca il futuro di questa industria.
Ormai tutti sono convinti che il video streaming non è più una roba da impallinati, ma un’industria che fa numeri spaventosi: si parla di un giro d’affari che supererà i 50 miliardi di dollari nel 2020. In questo segmento c’è un “uomo” solo al comando: è Netflix con Amazon, Hulu e YouTube lì ad inseguire. La quota dei media tradizionali è poco più che irrilevante. Una recente indagine condotta nel Regno Unito ha scoperto che i giovani sotto i 16 anni preferiscono di gran lunga Netflix e YouTube alla televisione tradizionale. Sui nuovi media trascorrono più di 5 ore al giorno, mentre il tempo trascorso da un’audience più adulta è di 3 ore. Cercano da soli i loro contenuti preferiti e li consumano dove capita attraverso una connessione web. Simon Leggett, responsabile del sondaggio condotto da Childwise, parla di “cambio epocale”. E un cambio epocale sta proprio accadendo.
Al mercato piace Netflix
Anche il mercato dei capitali ha iniziato a scommettere su Netflix contro i conglomerati media tradizionali. Nel 2015 Netflix è stato il titolo a maggiore crescita (+139%) nel listino azionario S&P 500. Al secondo posto si è piazzato Amazon con uno strabiliante +122% per una società che fa profitti microscopici. I grandi conglomerati media sono stati bastonati dagli investitori nella seconda parte del 2015. Infatti dal maggio dello scorso anno sono stati bruciati 111,63 miliardi di dollari di capitalizzazione di sette più grandi conglomerati media dell’industria della cultura e dello spettacolo (Walt Disney, Comcast, Time Warner, 21st Century Fox, Sony, CBS e Viacom). Una parte non più trascurabile degli abbonati al servizio di TV via cavo forniti da questi conglomerati, e che sono la gallina dalle uova d’oro per i loro bilanci, sta staccando la spina e migrando verso servizi di streaming. È un vero e proprio incendio che terrorizza gli investitori che iniziano ad evacuare l’edificio.
Fox e Time Warner stanno correndo ai ripari nel tentativo di offrire più contenuti e più servizi sul cavo. L’idea è quella di trattare, con le case di produzione, i diritti per rendere immediatamente disponibili alla visione intere stagioni di serie TV così da contrastare Netflix su uno dei suoi punti di forza che è il binge watching (cioè le maratone di visione di intere serie TV con tutti gli episodi subito visionabili) che è una dei servizi più apprezzati dagli spettatori. Basterà il binge watching a fermare la perdita di abbonati? Forse l’unblunding (cioè lo spacchettamento degli abbonamenti verso un servizio à la carte nella scelta dei canali per i quali pagare) potrebbe essere una misura più radicale, ma anche enormemente più rischiosa per l’assetto della TV via cavo.
Farhad Manjoo, il technology columnist del New York Times, ha descritto molto bene la situazione e le sfide che sono di fronte ai grandi conglomerati media in un articolo dal titolo Why Media Titans Would Be Wise Not to Overlook Netflix comparso sul quotidiano di New York. Di seguito ve lo offriamo nella traduzione italiana dai Ilaria Amurri. Buona lettura!
Immagina…
Immaginati a capo di gruppo media globale. Mettiamo che tu sia Robert A. Iger, CEO della Disney, o Brian L. Roberts, di Comcast, o qualche gradino più in basso nella scala dei colossi, come il capo della Twenty-First Century Fox o della Time Warner. In ogni caso avresti un sacco di roba di valore: studi cinematografici, emittenti televisive, magari un’infrastruttura a banda larga o perfino qualche parco a tema con tanto di montagne russe e castelli da favola.
Ecco una domanda per te, caro amico magnate dei media. Quanta paura hai di Netflix? O per essere più precisi: ne hai abbastanza? Probabilmente no. Ebbene sì, la devi avere. Netflix è cresciuto a dismisura negli ultimi anni e oggi può contare su su oltre 70 milioni di abbonati che pagano tra gli 8 e i 10 dollari al mese per accedere a un ampio catalogo di film e serie TV. L’anno scorso le azioni del gruppo di Los Gatos sono state le migliori dell’indice Standard & Poor’s 500, in crescita del 140%, e le cose vanno di bene in meglio.
La settimana scorsa Reed Hastings, l’uomo-pizzetto CEO della società, ha annunciato che presto i film e le serie TV di Netflix saranno disponibili praticamente in tutto il mondo (ad eccezione della Cina, almeno per il momento). La mossa ha quasi raddoppiato il mercato potenziale del servizio, che attualmente raggiunge oltre 540 milioni di case in tutto il mondo grazie alla banda larga.
Eppure Netflix è ancora una barchetta nel mare globale dei contenuti e di certo non rappresenta ancora una minaccia per le flotte più potenti del settore. I tuoi castelli sono al sicuro, giusto?
Beh, c’è un problema più grave che tu e i tuoi amichetti avrete modo di affrontare mentre arrostite toffolette al World Economic Forum di Davos, la prossima settimana: e se Netflix fosse l’Amazon dell’intrattenimento? L’artefice di un’azione lenta, costosa e rischiosa finalizzata a logorare il vostro business?
La buona notizia per la combriccola di Davos è che ci sono molte buone ragioni per cui la strategia di Netflix potrebbe non andare a buon fine, la cattiva notizia è che per adesso funziona benissimo.
Il piano di Hastings
Sulla carta, il piano di Hastings di sfidare la televisione tradizionale è sembrato a lungo impraticabile, così come una volta sembrava delirante la strategia di Bezos di superare la vendita al dettaglio con Amazon. Netflix sta osando, questo è poco ma sicuro, sta spendendo miliardi per creare contenuti originali e ottenere licenze, sta lottando contro le forze mediatiche di tutto il mondo e non possiede nessuno dei tubi che arrivano alle case della gente (fra i principali rivali di Netflix c’è la stessa Amazon, che gli fornisce il servizio tecnico di distribuzione con AWS, e che ha la sua produzione di contenuti originali, molto agguerrito e in via di espansione).
L’audacia di Netflix sta sollevando reazioni forti a Wall Street. La società, con sede a Los Gatos nella Silicon Valley, vale attualmente 50 miliardi di dollari e molti analisti sono semplicemente entusiasti, dicono che il suo sforzo di reinventare la TV potrebbe valere molto di più, mentre altri provano quasi una repulsione fisica.
“È incredibile quanto la concorrenza possa dimostrarsi stupida”, dice Michael Pachter di Wedbush Securities, convinto che Netflix sia ampiamente sopravvalutata, “gli vanno tutti dietro come un branco di pecore”.
La convinzione generale è che, come Amazon in passato, Netflix stia osando così tanto che prima o poi farà qualche passo falso, ma nonostante questo continua a stupire tutti. Gli esperti e la concorrenza si aspettano che ci metta almeno un paio d’anni a diventare globale, ma il resto del settore sembra sempre uno o due passi indietro rispetto alle ambizioni di Hastings.
Il plus di Netflix: creatività costruita sui dati
La capacità di sorprendere è la somiglianza più evidente tra Netflix e Amazon, ma ce ne sono molte altre. Ad esempio, così come nel caso di Jeff Bezos, con la sua enorme macchina di vendita al dettaglio, gli investitori hanno lasciato che Netflix investisse somme ingenti per creare un video-jukebox accessibile al mondo intero, solo che Amazon investiva in oggetti, mentre a Netflix interessano i contenuti originali. All’International Consumer Electronics Show (CES) della settimana scorsa, Ted Sarandos, Chief Content Officer di Netflix, ha dichiarato che nel 2016 la società produrrà 600 ore di programmi originali, circa il doppio dell’anno scorso e al pari delle principali emittenti televisive.
Ned Schindler, analista della Bank of America Merrill Lynch, ha riepilogato in una lettera agli investitori tutti i nuovi programmi che Netflix offrirà quest’anno:
31 serie TV,
10 film,
30 programmi per bambini,
12 documentari e 10 spettacoli di comici.
“In pratica dovreste guardare Netflix ininterrottamente per 25 giorni di seguito per consumare tutti i nuovi contenuti originali”, dice Schindler. Netflix non è solo una televisione, però. Come Amazon, sta accumulando informazioni sulle preferenze dei clienti e le sta utilizzando per creare contenuti che attirano diverse fasce demografiche in tutto il mondo. Sempre in occasione del CES, Sarandos ha affermato che il modello di business e i dati a disposizione di Netflix consentono di produrre programmi che non avrebbero potuto esistere nella TV tradizionale: “Per fare un’analogia con il baseball, la TV lineare segna solo in home run, mentre noi facciamo anche i singoli, i doppi e i tripli”.
Infine, Netflix e Amazon sono simili anche perché ricordano una sorta volano che continua a girare sempre più velocemente: più abbonati, più dati, più soldi per finanziare nuovi contenuti, il che a sua volta porta nuovi clienti e così via, sempre più in fretta. Attualmente Netflix vede a stento un barlume di profitto, ma gli esperti dicono che, man mano che la ruota gira, comincerà a guadagnare somme sempre più alte.
La necessità e la difficoltà di alzare i prezzi
Inoltre, pare che stia diventando così potente nel campo dei contenuti da trovarsi nella posizione di poter alzare i prezzi. Gli analisti si aspettano che cominci ad aumentare la quota di abbonamento, che attualmente è tra le più basse. A detta della società, negli ultimi tre mesi del 2015 i clienti avrebbero guardato 12 miliardi di ore di video in streaming, vale a dire che hanno pagato circa 14 centesimi all’ora, come stimato da Rob Sanderson, analista di MKM Partners. “La TV via cavo costa tra i 25 e i 30 centesimi all’ora, quindi Netflix costa circa la metà”, spiega Sanderson.
Quel che è certo è che Netflix continua a sorprendere tutti con le sue scelte rischiose. Così come Amazon è passata dai libri a tutto il resto, Netflix è passata dalla distribuzione di DVD ai vecchi film in streaming, arrivando a produrre di film e serie TV. Alcuni credono che continuerà a espandersi nel settore, ad esempio creando un suo studio di produzione, e non è escluso che possa aprire un suo parco a tema, se continua così.
Naturalmente non mancano gli scettici. Secondo Pachter, Netflix rischia di incontrare difficoltà nel ridurre i costi di produzione. Quando i giganti dei media si renderanno conto che Netflix sta portando via i migliori clienti alla TV, inizieranno a chiedere di più per i contratti di licenza, inoltre non sarà facile alzare il prezzo degli abbonamenti a causa della concorrenza di Amazon, che offre una programmazione originale inclusa nel pacchetto Prime (che costa 99$ all’anno, circa 20$ in meno di Netflix, con spedizione gratuita su tutte le merci dell’e-commerce).
Al di là di questi inconvenienti, Pachter pensa che Netflix possa creare un business piuttosto proficuo, anche se non del tutto eccezionale: “Nessuno si sbarazzerà di loro tanto facilmente, ma penso che le azioni scenderanno a 70$ o 75$”, rispetto ai 115$ di adesso (in seguito ha aggiustato la cifra a circa 60$). “In caso contrario niente avrebbe più senso, perché se Netflix dovesse averla vinta tutti gli altri perderebbero automaticamente”. E questo è impossibile, vero? Il punto di domanda è d’obbligo?