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Cgil, la candidatura Colla sfida il populismo filo-grillino

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Quando sono entrato in Cgil (alla Fiom di Bologna) nel 1965, Vincenzo Colla aveva tre anni. E ne aveva compiuti poco più di venti quando – dal 1980 al 1985 – ho diretto la Cgil dell’Emillia Romagna (incarico ricoperto dallo stesso Colla prima di entrare a far parte della segreteria confederale dove è candidato a subentrare a Susanna Camusso – si dice – in competizione con Maurizio Landini).

Il salto generazionale giustifica, da parte mia, una conoscenza poco approfondita della persona, anche se la “scuola della Cgil” fornisce indiscutibili attestati di serietà e di professionalità. Ho letto l’intervista rilasciata a Dario Di Vico sul Corriere della Sera e ne ho apprezzato i contenuti di chiara impostazione innovatrice.

Indubbiamente una leadership di Colla potrebbe ritessere i fili di una linea politica riformista che si è smarrita da tempo nella Confederazione di Corso d’Italia, paradossalmente da quando, a dirigerla, sono arrivati ex socialisti come Guglielmo Epifani e Susanna Camusso. Ed è molto importante che Vincenzo Colla faccia valere le sue idee (di minoranza?) in un momento come l’attuale, dominato dal vento maleodorante dei populismi, che spira impetuoso pure all’interno dell’organizzazione.

Anche per la Cgil, in vista del congresso, si pone il medesimo dilemma che sta di fronte al Pd e alla sinistra, nelle sue varie componenti. Per il sindacato si tratta di scegliere quale linea di condotta adottare nei confronti del governo giallo-verde; per i partiti quale atteggiamento tenere, sul piano delle possibili alleanze, nei confronti del M5S.

È a tutti evidente che la discesa in campo della Cgil, dall’una o dall’altra parte, potrebbe cambiare di molto lo scenario politico. Ma la questione è ormai iscritta all’ordine del giorno. Lo si è visto, nelle scorse settimane, in occasione del dibattito aperto dallo stesso Colla su Facebook tra i maggiorenti della Cgil.

La controversia sembrava riguardare una questione di metodo, ma era di grande sostanza: è stato più o meno opportuno invitare – alle Giornate del Lavoro organizzate dalla Cgil a Lecce – Paolo Savona, considerando le sue posizioni sull’Europa? Alle critiche (dal mio punto di vista corrette) di Vincenzo Colla, altri dirigenti hanno fatto notare che Gianna Fracassi, in rappresentanza della Cgil, aveva espresso con grande chiarezza la posizione diversa della Confederazione.

Ma nella replica di Colla e di quelli che ne condividevano le opinioni sono stati sollevati due argomenti inconfutabili. Il primo: in un recente passato la Confederazione non si era mai presa la briga di invitare (e di accogliere a braccia aperte) ministri di altri governi, non solo di centro-destra (come, per esempio, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti), ma era stata piuttosto freddina anche con gli esponenti degli esecutivi della XVII legislatura (a cui hanno più volte negata la patente di sinistra).

La seconda obiezione – che Emilio Miceli leader dei chimici ha rivolto ad Elena Lattuada segretaria della Lombardia – è calata nel confronto aperto come un colpo di scure: “Elena, se i giornali riportano bene il dibattito, dovresti preoccuparti anche tu degli applausi. Significa che le nostre posizioni sono sostanzialmente irrilevanti agli occhi della nostra gente. È un problema”.

La Cgil saprà dire dei no sulle misure in materia fiscale, previdenziale e, in particolare, sul reddito di cittadinanza (per quel poco o quel tanto che sarà attuato nella manovra)? Potrà opporsi a quota 100 e a quota 41 (anche la Cisl ha dato un giudizio positivo per non parlare della Uil)?

Per salvarsi la coscienza la Cgil sosterrà che non basta pensare ai baby boomers ma che si deve provvedere anche ai giovani (la c.d. pensione di garanzia), o preferirà fingere di ignorare che la maggiore spesa derivante dalle controriforme pensionistiche e il rilevante numero di nuovi pensionati di anzianità che intaseranno il sistema per decenni e manderanno il conto da pagare agli occupati di oggi e a quelli di domani (che quota 100 e quota 41,5 le vedranno col binocolo).

Impiegare, a regime, una ventina di miliardi (la somma delle quote leghiste e della pensione di cittadinanza cara ai pentastellati) è come gettare soldi dall’elicottero; vuol dire aver smarrito la gerarchia delle effettive priorità; significa creare problemi persino sul versante dell’offerta di lavoro nelle regioni più sviluppate del paese e quindi alimentare l’afflusso di nuovi lavoratori stranieri senza i quali i padroncini leghisti del Nord produttivo dovranno chiudere bottega non perché sono travolti dalle tasse (e aspettano la “pace fiscale”) ma perché non troveranno nessuno (tanto meno i giovani) disposto a “far girare” le macchine nelle loro officine.

Anche il Pd stenterà a condurre un’opposizione efficace verso questi provvedimenti. Oggi critica lo sfondamento del deficit, ma si guarda bene dal dichiararsi contrario alle misure politiche che lo determinerebbero. È troppo facile fare opposizione così. Io non intendo forzare il pensiero di Vincenzo Colla, ma credo che – come ha sempre fatto nella sua storia – la Cgil non possa sottrarsi ad un giudizio sulla natura politica dei governi e delle maggioranze, quando è ormai chiaro che le forze sovran-populiste cercano di accrescere il loro consenso facendo ricorso al “peronismo”: un fenomeno che, in fondo, è una delle possibili forme di sindacalismo.

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