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Ceriani: “Fisco, per battere l’evasione la priorità è ridurre l’erosione”

Imagoeconomica

Ogni anno con l’approssimarsi della legge di bilancio il nostro sistema fiscale è sottoposto a tensioni di segno opposto e difficilmente conciliabili: da un lato si proclama l’esigenza di procedere ad una riduzione del carico fiscale sulle imprese e sulle famiglie e dall’altro si deve tener conto delle esigenze di equilibrio dei conti pubblici senza il quale si rischia un amento dei tassi d’interesse che renderebbe insostenibile il peso del nostro gigantesco debito pubblico e ostacolerebbe gli investimenti privati, spingendo l’economia verso la stagnazione o la recessione.

La conseguenza è che il nostro sistema fiscale è diventato una specie di vestito di Arlecchino privo di un disegno complessivo e razionale, che di volta in volta riesce a soddisfare gli appetiti di qualche gruppo di interesse, ma che nel complesso provoca forti distorsioni nel funzionamento del sistema stesso bloccando la mobilità delle persone e delle imprese, e ostacolando l’efficienza sia del fisco che dell’economia nel suo complesso. E non è un caso se non cresciamo da oltre vent’anni. 

Per cercare di sbrogliare l’intricata matassa abbiamo chiesto un parere a Vieri Ceriani, studioso dei sistemi fiscali che unisce alla formazione teorica una lunga esperienza concreta prima all’ufficio studi della Banca d’Italia, e poi come sottosegretario al MEF nel Governo Monti e consulente di vari ministri dell’Economia.  

Partiamo dalla lotta all’evasione fiscale. Nel NADEF presentato nei giorni scorsi dall’attuale governo giallo-verde, si prevede di incassare ben 7,2 miliardi nel prossimo anno dalla lotta all’evasione. In teoria tutte le forze politiche concordano con la necessità di ridurre l’enorme evasione italiana che, secondo stime attendibili, ammonta ad oltre 100 miliardi di euro l’anno. Finora nessuno è riuscito ad intaccare questa montagna e quindi c’è scetticismo presso gli osservatori sulla possibilità di raggiungere la cifra prevista per il prossimo anno.   

“Effettivamente raggiungere in un solo anno quella cifra sembra molto ambizioso. E’ pur vero che l’obbligo della fatturazione elettronica entrato in vigore quest’anno sembra stia dando, come atteso, buoni frutti. L’estensione all’invio telematico dei corrispettivi dovrebbe anch’esso dare un contributo positivo, come pure la lotteria dello scontrino, uno strumento efficace per creare il contrasto di interesse tra il consumatore e il dettagliante o il fornitore di servizi, che ha dato buona prova nei paesi europei ed extraeuropei che l’hanno introdotto. Tuttavia per un’azione veramente efficace per battere l’evasione è prioritario ridurre l’erosione fiscale, cioè rivedere le esenzioni e le agevolazioni rispetto alle imposte ordinarie. Si tratta di quella che è stata definita “evasione legale”, composta cioè da tutti quei provvedimenti che riducono il carico fiscale su determinati settori economici o sociali e che, oltre a provocare una riduzione del gettito per l’erario, provocano disparità tra diverse categorie di contribuenti aumentando la percezione di un fisco iniquo ed ingiusto, stimolando i non beneficiati da queste regalie a cercare altre strade per contenere il proprio carico fiscale, a ”farsi giustizia da soli”. Purtroppo, negli ultimi anni l’erosione è in crescita”.

Si tratta della massa delle cosiddette tax expenditures, che ammontano a diverse decine di miliardi e che tutti i governi affermano di voler rivedere, ma che poi di fatto nessuno riesce a ritoccare per paura di inimicarsi qualche potente gruppo lobbystico. Anzi ogni anno il governo in carica cerca di concedere qualche beneficio aggiuntivo che non potendo per motivi di equilibrio di bilancio riguardare la generalità dei contribuenti, il più delle volte si concentra su categorie particolari con il risultato peraltro di rendere ancora meno razionale l’intero sistema fiscale. 

“Quasi tutti i governi hanno agito in questo modo. Anche Renzi ha esentato gli agricoltori dall’IRAP ed ha tolto l’IMU sulla prima casa per motivi prettamente politici. Prendiamo poi l’ultima importante modifica introdotta quest’anno dal governo Lega-5 Stelle, che concede un regime forfettario di tassazione per professionisti o imprese individuali con fatturato fino a 65 mila euro da estendersi dal 2020 fino a 100 mila. Questa è una norma che stravolge il sistema. Il regime forfettario è nato per agevolare attività marginali, di piccole dimensioni, poco strutturate. Si calcola invece che quando il tetto di fatturato salirà a 100 mila euro circa l’80% delle imprese individuali e delle società di persone rientreranno in questo regime. E poiché queste imprese non hanno nemmeno l’obbligo della fattura elettronica, avremo su una larga parte del nostro sistema economico scarse possibilità di controllo. Quindi la caccia all’evasione dovrebbe concentrarsi sul restante 20% di professionisti o imprese individuali che sono al di sopra di quella soglia e che magari sono quelle più in regola con il fisco. Questa norma è una chiara conferma di quanto dicevo prima: è una forma di erosione che riduce enormemente lo spazio per la lotta all’evasione fiscale. Intanto, dal punto di vista economico spinge le imprese verso il nanismo: quelle piccole sono disincentivate a crescere, mentre quelle un po’ più grandi cercheranno di “immergersi” (magari frammentandosi) sotto la soglia forfettaria. Ora sembra che l’aumento a 100 mila euro possa essere rinviato. Ma per avviare un vero cambiamento si potrebbe quantomeno estendere la fatturazione elettronica a coloro che sono nel regime forfettario, in modo da avere traccia dei rapporti che intrattengono con il resto del sistema”.

Accanto alla fatturazione elettronica che già nell’anno in corso sembra aver dato buoni risultati, ci sono altre misure previste a suo tempo nella delega fiscale del governo Monti, che potrebbero dare una vera spinta al cambiamento dei rapporti tra fisco e contribuente.  

“Sì. La fatturazione elettronica consente agli uffici tributari di avere subito le informazioni per far scattare i controlli su coloro che fanno false fatture o su chi apre delle aziende con l’intenzione di non versare l’IVA incassata e di chiudere dopo uno o due anni scomparendo agli occhi del fisco. Controlli tempestivi ostacolerebbero questo tipo di truffe. Da quest’anno, inoltre, è entrato in vigore il passaggio dagli studi di settore agli indici di affidabilità dei contribuenti di dimensioni piccole e medie. E questo sistema dovrebbe portare un vero cambiamento di cultura nel rapporto tra contribuente e fisco e nelle modalità operative dell’Agenzia delle Entrate. Si dovrebbe passare cioè da un sistema di controlli ex post che in teoria avrebbero dovuto colpire in modo massivo tutti i contribuenti, alla individuazione ex ante di coloro che sono affidabili, i quali vengono premiati sollevandoli da adempimenti e controlli e rendendo più agevoli i rimborsi, e di coloro che invece hanno basso indice di affidabilità, nei confronti dei quali, però, non si interviene dopo la dichiarazione dei redditi con accertamenti e sanzioni, ma aprendo subito un dialogo, rilevando anomalie e invitando a mettersi a posto prima di presentare la dichiarazione, per evitare futuri accertamenti e sanzioni. Siamo di fronte ad un fisco rigoroso ma più dialogante, alieno da repressione generalizzata ma capace di individuare con analisi precise i contribuenti infedeli, incalzarli con rilievi puntuali che li spingano a dichiarare di più, e quando è il caso punirli con accertamenti efficaci, in grado di reggere il contenzioso. Un fisco consapevole che non tutti i contribuenti sono evasori, non tutti sono da perseguire allo stesso modo, da assoggettare agli stessi controlli ed adempimenti. Occorre discriminare tra i contribuenti disonesti e gli onesti, che vanno incoraggiati e premiati. Questa mi sembra l’eredità dell’epoca Monti. Del resto la premialità fu introdotta dal governo Monti già con il decreto Salva Italia, segnando una rottura rispetto alle precedenti strategie, di cui il più autorevole ed efficace interprete è stato indubbiamente Vincenzo Visco. Credo che un sistema basato su un dialogo ex-ante, su una maggiore collaborazione tra amministrazione e cittadini possa dare migliori risultati rispetto a un sistema basato solamente sulla repressione ex-post e la moltiplicazione degli adempimenti. Anche perché la sola repressione, con l’aggiunta di sanzioni penali, non funziona in concreto: la macchina tributaria ha tempi lunghi che, sommandosi a quelli della magistratura, portano alla prescrizione. In questo contesto, inasprire le pene serve a poco. Di fatto i condannati per evasione fiscale da quando esistono le “manette agli evasori” sono stati pochissimi. Forse solo Berlusconi”.

Molti studiosi sostengono che bisogna smetterla di intervenire sul sistema tributario con provvedimenti sporadici e contraddittori. Invece bisognerebbe darsi un obiettivo strategico e collocare le varie modifiche, che si andranno a fare nel corso del tempo, in una logica che consenta non solo al fisco di funzionare meglio e di essere più trasparente nei confronti dei cittadini, ma anche di evitare distorsioni nel funzionamento del sistema economico che spesso ostacolano il conseguimento di una maggiore efficienza e di una più elevata crescita.

“Credo che negli ultimi decenni il nostro sistema delle imposte dirette abbia mosso, con maggiore o minore consapevolezza e con oscillazioni, verso un sistema di tassazione “duale”, che prevede la separazione tra i redditi da capitale (redditi d’impresa, interessi, dividendi, plusvalenze, fitti) tassati con aliquota proporzionale e quelli da lavoro (dipendente o autonomo) tassati in maniera progressiva. Credo che si debba acquisire consapevolezza di questa tendenza e razionalizzare il sistema in coerenza col modello duale. Per i redditi da capitale bisognerebbe tendere verso un’aliquota unica, orientativamente compresa tra il 20 ed il 23%. Per le attività finanziarie, occorrerebbe uniformare i regimi. Per le imprese, ripristinare l’ACE, chiaramente superiore alla mini-Ires che l’ha sostituita, ma soprattutto, a differenza di questa, coerente con il modello “duale”. Per i redditi da lavoro, la progressività potrebbe essere strutturata con una funzione continua, che eliminerebbe scaglioni e soglie per detrazioni, evitando sbalzi e irregolarità nell’evoluzione dell’aliquota media. Si dovrebbe escludere la patrimoniale personale progressiva vagheggiata da qualche economista e da alcuni sindacati. E questo per la chiara ragione che la progressività potrebbe essere aggirata ripartendo i beni tra i vari componenti della famiglia, ma soprattutto la base imponibile tenderebbe a sparire, intestando la ricchezza a società, trust e altri veicoli, meglio se residenti all’estero. E del resto il patrimonio è già colpito, sia quello immobiliare che quello mobiliare con l’IMU e con l’imposta di bollo sui depositi e sulle altre attività finanziarie. Che poi l’IMU sulla prima casa sia stata tolta è stato un cedimento alla demagogia. E’ illogico che il possessore dell’appartamento in cui vive non paghi al proprio Comune altro che la tassa sui rifiuti, mentre non partecipa al costo degli altri servizi forniti dall’amministrazione cittadina. E’ saltato il principio “pago, vedo, voto”, fondamento del federalismo responsabile. Per contro è stata aumentata notevolmente l’IMU sulle seconde case, per cui il vantaggio per il ceto medio è stato modesto. Modesto pure per i contribuenti meno abbienti, che in molti comuni erano addirittura già esenti, anche grazie alle detrazioni. Certo rimane il problema della revisione del catasto che si basa su valori molto difformi da quelli di mercato, creando disparità veramente inaccettabili tra zone, tra tipologie di fabbricati, tra età di costruzione. La revisione del catasto era e sarebbe ancora pronta a partire, con l’obiettivo di mantenere invariata la base imponibile totale, solo redistribuendola. Ma la politica (nel caso specifico, il governo Renzi) ha avuto paura a mandarla avanti”.  

Veniamo all’ IRAP. Istituita più di vent’anni fa per sostituire i contributi sanitari ed altre tasse su imprese e sulle persone allo scopo di finanziare il sistema sanitario su base regionale, è stata via via svuotata della sua generalità, diventando una sorta di addizionale sul lavoro autonomo e sul reddito d’impresa. Probabilmente non ha senso mantenerla così com’è e nemmeno trasformarla in una addizionale IRPEF ed IRES perché ci sarebbero complicazioni applicative e perequative notevoli. Quindi che fare?  

“Credo che l’IRAP potrebbe essere sostituita da una nuova forma di prelievo, che potremmo chiamare Contributo di Solidarietà, che avrebbe il compito di finanziare tutto il welfare e non solo la sanità. Dovrebbe gravare su una base imponibile molto più vasta di quanto oggi non faccia l’IRAP e con aliquota molto bassa. Questo consentirebbe di avere un gettito maggiore rispetto all’attuale IRAP, da utilizzare per ridurre da subito il cuneo fiscale sul lavoro attraverso la parziale fiscalizzazione dei contributi sociali. Una fiscalizzazione che potrebbe essere modulata a favore dei giovani o delle donne contribuendo quindi ad aumentare la partecipazione al lavoro di molti cittadini oggi esclusi o confinati nell’economia irregolare, in condizioni di illegalità”.

 In questo modo si darebbe una spinta alla crescita dell’economia che però un fisco amico potrebbe agevolare anche in altri modi, oltre alla eliminazione delle distorsioni che tendono a danneggiare la produttività come si affermava prima.  

“La prima cosa da fare per stimolare la crescita è, a mio parere, quella di ripristinare l’Ace e cioè quel sistema che consentiva di premiare dal punto di vista fiscale chi metteva nuovo capitale in azienda o tramite versamenti dei soci o tramite l’accantonamento degli utili. E’ un sistema che tendeva con il tempo a rafforzare le nostre imprese, tradizionalmente povere di capitale proprio, e quindi stimolava gli investimenti produttivi e l’innovazione. E’ stata tolta per ragioni politiche e sostituita da un sistema che non ha dato buoni risultati”. 

Abbiamo parlato solo di fisco, di come razionalizzare il prelievo per evitare distorsioni ed anzi dare una spinta alla crescita dell’intera economia. Ma non si deve anche pensare a ridurre la spesa? Ogni volta la spending review viene annunciata ma immancabilmente viene rinviata all’anno successivo.  

“Certo che si dovrebbe fare di più. La spesa pubblica ha una tendenza naturale all’espansione. Per contrastarla varie iniziative sono state intraprese negli ultimi decenni dalla Commissione tecnica sulla spesa pubblica (1891-2003) e quella sulla finanza pubblica (2007-2008), con finalità conoscitive e propositive, fino all’istituzione dei Commissari (Bondi, Cottarelli, Gutgeld). L’obiettivo dei tagli alla spesa, per contenere il disavanzo pubblico, si intreccia con le questioni della qualità e quantità dei servizi, dell’efficienza nel produrli, con l’analisi dei processi amministrativi e, ovviamente, è condizionato da scelte squisitamente politiche sulle priorità. Non ha aiutato una intonazione un po’ emergenziale, collegata alla politica di bilancio annuale. Una più solida proiezione pluriennale, magari di legislatura, potrebbe aiutare. Forse al commissario alla spending review non basta la veste di “tecnico”, forse aiuterebbe un ruolo politico con la forza necessaria a sostenere le sue ragioni nei rapporti con i ministri, con il Parlamento e con l’amministrazione. L’esperienza dimostra che calare dall’alto le disposizioni per i tagli alla lunga non da i risultati sperati. Ci sono troppe resistenze e troppi sono i centri di spesa autonomi per avere risultati significativi. Sembra più promettente partire dal basso, cioè da singoli programmi di spesa, analizzarli in dettaglio, decidere cosa sopprimere, cosa mantenere, cosa modificare. Richiede tempo, ma alla lunga forse darebbe risultati. E occorrerebbe investire tutti i centri di spesa, anche quelli autonomi e diffusi sul territorio, imponendo procedure di spending review armonizzate. Ma soprattutto, come per il taglio alle tax expenditures, occorre una forte volontà politica a procedere, su un arco di più anni”.

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