A fine mese, quando a Bruxelles si riuniranno i capi dello Stato della Ue, si parlerà anche di Tilgungfonds, cioè del Fondo di Ammortamento dei debiti pubblici che, secondo Berlino, permetterà ai Paesi virtuosi di avvicinarsi, passo dopo passo (in linea con i metodi germanici) agli obiettivi previsti dal “Fiscal Compact”, ovvero prima l’azzeramento del deficit, poi il progressivo rientro dal debito pregresso entro il limite del 60 per cento. Non è detto che la proposta, in via di definizione in Germania, passi al vaglio del vertice Ue. Quel che è sicuro, però, è che senza una strategia di rientro dal debito, qualsiasi proposta sugli Eurobond è destinata ad incontrare il veto tedesco.
E’ in questa cornice che si spiega perché Mario Monti abbia dato il via proprio adesso alla fase due dell’azione di governo. L'”aggressione” al debito pubblico attraverso la dismissione di Fintecna, Sace e Simest per dieci miliardi così come la nascita di tre fondi per valorizzare i beni pubblici mobiliari ed immobiliari, statali o degli enti locali, non è un’operazione una tantum bensì l’avvio di un processo virtuoso destinato a produrre i suoi effetti nel tempo. Ancor di più, una carta da spendere al negoziato per il “Growth Compact” di modo da riattivare un flusso di capitali verso la nostra economia.
Un processo che viene da lontano, avviato passo dopo passo (un po’ alla tedesca) dalla riflessione dei centri pensanti del Paese. Fa impressione, al proposito, verificare il tono quasi profetico dello studio di Mediobanca, datato 28 febbraio 2012, dal titolo “ Cassa Depositi e Prestiti: la porta verso il taglio dei debiti”, che anticipa per molti versi la filosofia del provvedimento annunciato da palazzo Chigi. Non è difficile pensare che questo, come altri contributi, abbiano avuto un ruolo nella definizione delle strategie dell’esecutivo che merita di essere sottolineato. Mica per gridare al “provvedimento dei poteri forti”, come già viene fatto dagli sciocchi o dai furbi, interessati a conservare posizioni di rendita, ma per porsi alcune domande. Del tipo:
a) Chi farà parte della compagine azionaria della Cdp nuova formula? Basteranno i soci attuali, cioè il Tesoro e le Fondazioni ex bancarie oppure si aprirà il capitale ad azionisti terzi? Sarà l’occasione per coinvolgere nel processo banche d’affari, private equity o investment bank oppure per coinvolgere i Fondi sovrani?
b) Le grandi dismissioni attraverso un veicolo controllato dal Tesoro quale la Cdp segnano un ritorno in scena dello Stato imprenditore o, al contrario, ci sarà un passo indietro della macchina pubblica?
c) La terza domanda chiude l’abstract della ricerca di Mediobanca: “E’ meglio per l’Italia usare la vendita dei beni per ridurre direttamente i debiti oppure per mettere il ricavato a garanzia di “Eu covered Bond” emessi da Bruxelles di cui l’Italia sarà comunque una dei grandi beneficiari?
Per avere un’idea delle dimensioni del problema proviamo a fare due conti sulla filosofia che sta dietro la proposta del Tilgungfond, termine che rende assai meglio l’idea nella traduzione inglese: Redemption Fund, ovvero fondo della Redenzione. E come ci informa Alessandro Fugnoli di Kairos, filosofo e filologo prestato alla finanza, “redimere, in latino, viene da emere, comprare (Caveat emptor, stia attento il compratore). Passa nel francese rédimer e poi finalmente nell’inglese to redeem. Redemption è, anche in inglese, l’affrancamento, l’acquisto della libertà e della salvezza”. Un prezzo, insomma, che l’Italia dovrà pagare per liberarsi del fardello del debito che non ci verrà di sicuro rimesso gratis.
Il progetto originario tedesco prevede che il debito eccedente il 60 per cento del Pil dei paesi aderenti verrà mutualizzato. Si costituirà un colosso di 2.300 miliardi di passività garantite in solido da tutti i paesi. Il fondo si finanzierà a un tasso stimato del 4 per cento. Dovrà pagare più dell’Efsf e avrà probabilmente un rating più basso. L’Italia, il cui debito ammonta al 120 per cento del Pil, avrà la fetta più grossa, il 40 per cento, la Germania avrà il 25. Per meritarsi questi interessi scontati, il debito, che dovrebbe estinguersi (interessi compresi) in vent’anni, dovrà essere garantito da asset reali di ogni tipo, mentre l’ammortamento annuale sarebbe legato a una tassa ad hoc, i cui proventi finirebbero direttamente nel fondo. Il restante 60 per cento rimarrebbe di competenza nazionale e non potrebbe aumentare, pena l’uscita del paese dal fondo. Quanto costerebbe l’operazione? L’Italia, con 1950 miliardi di debiti, ne metterebbe la metà, 975, nel fondo. Dovrebbe versare ogni anno, oltre agli interessi (mettiamo 40 miliardi) una cinquantina di miliardi di ammortamento. Una parte verrebbe recuperata attraverso una minore spesa complessiva per interessi, il resto sarà necessario trovarlo. Naturalmente, il salasso sarà minore se:
a) il debito complessivo verrà ridotto da interventi straordinari; b) le “garanzie”, grazie ad una gestione opportunamente dinamica, daranno interessi in grado di far fronte alle cedole. In ogni caso la Cdp, come scrive Mediobanca, dovrà svolgere il ruolo di “liquidity provider” per consentire all’Italia di monetizzare il suo debito. O per via diretta o all’interno di un veicolo comunitario, una scelta delicata che tocca alla politica: può essere una mossa coraggiosa e saggia quella di legare i tesori del Paese ad una istituzione finanziaria comune. Ma una scelta così impegnativa deve per forza avere per corrispettivo uno sconto sul prezzo di redenzione.
c) Il tesoretto di casa nostra non è poi poca cosa, sottolinea Mediobanca. L’Italia è al terzo posto nel mondo per consistenza delle riserve aurifere (130 miliardi di euro). Il patrimonio immobiliare che fa capo al pubblico ammonta a circa 425 miliardi, ovvero più o meno lo stesso del Regno Unito ma di poco inferiore alla somma delle proprietà pubbliche di Francia e Germania. Più 40 miliardi circa, calcola Mediobanca, tra partecipazioni in società quotate e non (circa 27 miliardi senza tener conto delle Ferrovie). Naturalmente non è pensabile mettere in vendita beni di quell’importo in una volta sola. Ma qui entra in campo la Cdp, il veicolo ideale perché esterno al perimetro del debito pubblico, solido e più profittevole dei cugini di Francia e Germania cui spetta un duplice compito: acquisire assets pubblici anche in vista di eventuali cessioni. Favorire, in campo immobiliare, la cessione finale dei beni prestando la sua opera finanziaria. Per quale ammontare? L’intervento ideale, secondo Mediobanca, si colloca sui 200 miliardi tenendo conto anche dell’acquisto, per 50 miliardi circa, di una parte dell’oro di Banca d’Italia cui la banca attribuisce una leva di uno a tre. In questo modo la Cdp avrebbe a disposizione assets pari al 13% che potrebbe garantire un quarto circa degli eventuali “Eu covered bond” in carico all’Italia.
L’intervento deciso dal Governo, per ora, è di dimensioni inferiori. Cosa comprensibile perché è impensabile mettere in discussione le riserve auree senza un preventivo accordo con l’Europa e, in particolare, con la Bce. Ma, in questi casi, l’importante è mettere in moto gli ingranaggi, poi si vedrà. L’operazione Cdp, resa possibile dall’emergenza Fiscal Compact può trasformarsi in uno strumento di politica industriale virtuosa purché sappia mobilitare risorse imprenditoriali e i capitali residui. Anche in questo caso non ha senso contrapporre la politica fiscale politica da quello dello sviluppo. Ben venga la Cdp se, oltre a pilotare il destino di aziende come Avio o fornire capitali alle medie imprese, saprà favorire aggregazioni di imprese o ridar corpo a grandi progetti, come la banda larga, attraendo i privati. Sia quelli italiani che, soprattutto, gli investitori internazionali: un partner pubblico può essere considerato la chiave d’accesso ideale per un Paese come l’Italia al posto numero 43 nelle classifiche della libertà economica, fardello non meno grave del debito pubblico.