E’ opinione diffusa e condivisibile che la c.d. perfetta tempesta finanziaria degli ultimi anni abbia preso avvio nella finanza privata (soprattutto nei paesi anglosassoni la cui legislazione é di origine common law rispetto ai paesi più stabili dell’area euro che ha origini di civil law), poi si sia trasferita nel settore reale delle economia e quindi nel campo dei debiti sovrani.
Come osserviamo quotidianamente il dibattito oggi riguarda esclusivamente le sfide che i governi devono affrontare per il risanamento delle loro finanze pubbliche. Osservo invece che, afflitti da scarsa memoria sui fatti del passato, molti trascurano le sfide che riguardano i bilanci delle imprese del settore privato, con esclusione di quelli delle imprese finanziaria cui si chiede di accrescere la dotazione di capitali per fronteggiare la sofferenze passate e fronteggiare quelle future: ovvero (con gentile understatement) i crediti non performing (passati e futuri) delle imprese private cresciuti nel passato e forse anche destinati a crescere nel futuro.
E’ dunque legittimo domandarsi se le imprese non finanziarie (e i loro imprenditori) sono esenti da sfide, oppure se invece anche i loro bilanci devono affrontare impervie sfide per contribuire alla costruzione di un sistema finanziario stabile e duraturo nel tempo. Come ricorda la BRI (81 Relazione annuale, p. 12-13) “La stabilità finanziaria presuppone una correzione dei bilanci (…) delle imprese non finanziarie” (e che) “per mantenere e riconquistare la fiducia dei mercati occorre un ulteriore abbattimento della leva finanziaria”.
A questo proposito, le rilevazioni della Banca d’Italia per il 2009 (Relazione annuale 2010, p. 174) indicano che il saldo passivo delle imprese italiane non finanziarie ha superato la cifra di 2.000 miliardi di euro. Questo dato, aggiornato con le stime di Prometeia (Rapporto gennaio 2012, p. 103) potrebbe sfiorare i 2.100 miliardi di euro nel 2014. Nel complesso il fabbisogno finanziario si è ampliato sensibilmente, da 26 a 54 miliardi tra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, e potrebbe raggiungere il valore di 86 miliardi nel 2014 (Prometeia p. 103), Si deve dunque concludere che “il grado di indebitamento resta su livelli storicamente elevati: il leverage, pari al rapporto tra i debiti finanziari e la somma degli stessi con il patrimonio ai valori di mercato, è salito di oltre un punto, al 46,8 per cento. Alla fine del 2010 le imprese italiane presentavano un leverage superiore di oltre 4 punti percentuali rispetto alla media dell’area dell’euro e di circa 12 punti rispetto agli Stati Uniti (Banca d’Italia, p. 175).
Se è dunque vero ed anche opportuno che in futuro i governi dovranno ridurre la dimensione dei loro debiti pubblici, pare altrettanto opportuno che anche le imprese non finanziarie procedano alla riduzione dello stock dei loro debiti in modo che anche il rapporto tra credito privato e Pil possa tornare sui livelli che rendono le imprese stesse meno vulnerabili di fronte a shock esterni anche modesti.
Una volta si diceva che il finanziamento degli investimenti delle imprese avrebbe dovuto rispondere alla seguente composizione: un terzo con utili non distribuiti, un terzo con gli ammortamenti, un terzo con capitale di debito. Oggi pare di poter dire che gli investimenti sono finanziati per un terzo coindebiti, un terzo con altri debiti e un terzo con ulteriori debiti. Da qui la grande vulnerabilità delle nostre imprese che nel confronto con gli altri paesi mostrano che è più elevata la quota del debito con scadenza inferiore ai dodici mesi: i debiti a breve termine rappresentano il 37 per cento del totale, rispetto al 28 per cento dell’area dell’euro.
Ben si sa che le imprese italiane soffrono di nanismo anche per effetto dello statuto dei lavoratori (il famoso art.18) che non riguarda le imprese con meno di 15 addetti. Il che porta molti imprenditori ad acquattarsi sotto tale livello, casomai in un accrocchio di mini imprese possedute dallo stesso imprenditore o dalla sua famiglia. Anche questo aspetto dovrebbe essere preso in considerazione per consentire alle imprese di crescere dimensionalmente e per tale via rafforzarsi finanziariamente.
Purtroppo è anche ben nota la riluttanza dei nostri imprenditori a investire la “loro roba” nelle loro imprese (sovente preferiscono le immobiliari di famiglia caso mai da intestare ai figli), adducendo supposti svantaggi fiscali, che l’introduzione dell’ACE da parte del governo monti tenderebbe a ridurre (meglio sarebbe stata la DIT-Dual income tax del Governo Prodi). Rimane il dubbio che tale strumento sia in grado di ridurre sensibilmente il delevereging delle imprese italiane.
E’ ragionevole supporre che la concentrazione della ricchezza netta nelle mani del 10 per cento delle famiglie italiane (che ne posseggono il 45,9% con un indice di concentrazione del 62,4%. Fonte Banca d’Italia) siano anche famiglie di imprenditori. Se così fosse, rispetto all’ACE (o insieme a questa) meglio sarebbe la previsione di una esplicita condizione contrattuale che prevedesse che per ottenere credito bancario, per ogni euro richiesto alla banca per i nuovi investimenti, l’imprenditore dovrebbe concorrere al rischio d’impresa con una quota della “sua roba” pari, ad esempio, al 25 per cento di quanto richiesto. Così facendo, il 75 per cento del rischio d’impresa resterebbe in testa alla banca il 25 per cento in testa all’imprenditore che così sarebbe incentivato a ricercare progetti innovativi capaci di remunerare il capitale investito e di fare crescere dimensionalmente la sua imprese (anche oltre la soglia dei 15 addetti così come dovrebbe essere rivista da nuovi accordi sul mercato dl lavoro) in un contesto di maggiore solidità finanziaria e di riduzione della leva finanziaria come richiesto dalla stabilità dei sistemi finanziari ancora da raggiungere. E così anche il rapporto tra crediti privati e Pil, cresciuto in modo abnorme e concausa della crisi potrebbe tornare su valori più accettabili e meno foriero di nuove tempeste finanziarie.