Prevenire è meglio che curare, come dimostra anche l’uragano Harvey, che per circa quattro giorni ha colpito con estrema violenza la costa texana nei pressi di Houston. La tempesta si è ormai dissipata da giorni, lasciando dietro di sé uno scenario critico. I maggiori danni sono stati causati dalle eccezionali inondazioni dovute alle piogge torrenziali.
Più di 60 le vittime, mentre i danni ai beni materiali potrebbero superare i 180 miliardi di dollari, secondo il Governatore Abbott. L’intensità delle precipitazioni si inserisce in un più ampio contesto globale di cambiamento climatico che colpisce vaste aree del mondo, come dimostra l’arrivo di Irma sulle cose americane dopo la terribile “scorribanda” sui Caraibi.
Due trend emergono dall’analisi delle catastrofi degli ultimi anni: se da una parte il numero sempre maggiore di eventi atmosferici di questa portata non ha causato un corrispondente aumento del numero di vittime, dall’altra vi è stato un costante aumento dei danni materiali. La World Health Organisation stima che, in termini reali, il costo globale dei danni causati dagli uragani aumenta del 6% ogni anno.
Questi trend dipendono naturalmente da come si combinano tra loro le due variabili del cambiamento climatico e dell’attività dei governi in termini di pianificazione e riduzione dei rischi. Il rappresentante speciale ONU per la Disaster Risk Reduction (DRR), Robert Glasser, ha sottolineato come sia stato solo grazie all’alto livello di preparazione degli Stati Uniti nel campo della prevenzione dei disastri naturali se il numero di vittime di Harvey sia stato così basso.
Tuttavia Harvey evidenzia quanto anche i paesi ad elevato reddito siano esposti al rischio quando si costruisce su larga scala in zone costiere esposte alle tempeste tropicali. Questa crisi ha suscitato un vivace dibattito per rivedere il funzionamento del sistema di DDR degli USA: migliorando i meccanismi di monitoraggio, prevenzione e risposta, uno stato aumenta la possibilità di salvare vite umane e la velocità di ripresa delle comunità colpite, consentendo al contempo al governo di risparmiare sul finanziamento di enormi ricostruzioni post-catastrofe (in media, per ogni Euro investito in riduzione dei rischi e attività di prevenzioni alle catastrofi se ne risparmierebbero tra i 4 e i 7 spesi per rispondere alle conseguenze dei disastri).
Un importante aspetto è il contributo che viene dal settore assicurativo statunitense – pubblico e privato – al finanziamento dei costi da disastri. Laddove esiste – come appunto negli USA – una copertura pubblica specifica per l’assicurazione di tali catastrofi (il National Flood Insurance Program), accompagnato da uno sviluppato mercato privato di polizze assicurative.
Il programma americano, che risale agli anni ’60, è oggi soggetto a critiche e necessita di riforme, ma presenta una caratteristica che è di grande attualità e utilità nel confronto col nostro Paese. Il finanziamento delle catastrofi non è lasciato alle decisioni dei governi in ogni specifico caso, e a spese “a piè di lista”, ma è supportato da meccanismi assicurativi nei quali la partnership pubblico-privata è ormai imprescindibile.