La SACE è la società che assicura le operazioni con l’estero delle nostre imprese. Il suo capitale è in mano al Ministero dell’Economia e Finanze, ed i suoi impegni assicurativi sono integralmente garantiti dallo Stato. E’ quindi un’azienda pubblica a pieno titolo. Eppure, chi entra nel bel palazzo di Piazza Poli a Roma, a due passi dalla Fontana di Trevi, se pensa di trovarsi di fronte a un covo di burocrati, si sbaglia di grosso. Alessandro Castellano, l’Amministratore delegato di SACE è un moderno manager, con le idee molto chiare sul futuro del gruppo. Dal 2004, quando la SACE è stata trasformata in società per azioni, l’ha rivoltata come un calzino, trasformandola da un carrozzone vecchio stile in una moderna assicurazione in grado di sostenere la competitività delle nostre aziende sui mercati internazionali. “Per aziende come la nostra – ci dice Castellano – il mondo è molto cambiato: se negli anni ‘80 il nostro business era concentrato per il 90% sul rischio sovrano e solo per il 10% sul rischio commerciale, oggi questa percentuale si è ribaltata”. Soprattutto, quello che traspare nell’intervista con il dottor Castellano è una visione moderna del sostegno all’internazionalizzazione. Non ha senso assicurare progetti sgangherati in paesi rischiosi soltanto perché si tratta di vendere merci prodotte in Italia. Bisogna sostenere il “made by Italy” (che le merci siano prodotte in Italia o all’estero è poi di secondaria importanza), purché i progetti di export ed investimenti abbiano una sostenibilità economica e offrano un ritorno in termini di competitività e di reddito alle nostre aziende.
Dottor Castellano, aumentando i rischi, la crisi ha frenato i flussi commerciali verso l`estero?
C’è stato un aumento notevole sia del rischio di controparte sia del rischio di liquidità. Ecco perché proprio in un’ottica di export sarà importante che non solo l’Italia ma anche l`Europa garantiscano alle imprese un maggior accesso al credito, tenendo conto che la competitività delle nostre aziende dipende da tre fattori: prezzo, qualità della merce e condizioni di finanziamento concesse all’acquirente.
Il confronto con i nuovi mercati emergenti spinge ad un ripensamento delle strategie di competitività…
È finito il luogo comune secondo cui la leva di competitività delle produzioni dei paesi emergenti sia essenzialmente legata al prezzo. Oggi è sempre più legata anche alla qualità. I paesi emergenti avanzati non domandano solo beni di consumo per soddisfare le esigenze delle classi medie in crescita, ma chiedono anche beni intermedi e d’investimento. Stanno fortemente investendo nell’innovazione tecnologica della produzione industriale, in un rapido processo di catch-up dei competitor occidentali, insidiando il loro storico primato. Secondo un recente articolo del Financial Times, in settori come la meccanica industriale e l’energia, la Cina oggi è ormai il principale concorrente della Germania, grazie proprio, tra l’altro, alla tecnologia innovativa importata dalla Germania. Una ragione in più per le nostre imprese per armarsi di tutti gli strumenti finanziari idonei a massimizzare la competitività della propria offerta, laddove i vantaggi marginali derivanti dalla loro storica superiorità qualitativa si stanno progressivamente erodendo.
Come può, un’impresa o un investitore, destreggiarsi in un mondo dove il virus della crisi contagia ogni giorno qualche paese o settore economico diverso?
Un’impresa deve diversificare la produzione, i fornitori e gli acquirenti. La Mattel produce la celebre Barbie in più di 10 paesi diversi: i capelli arrivano da una parte, le gambe da un’altra e così via. Poi la vende in tutto il mondo. In questo modo, se scoppia una crisi in un`area geografica, non ne risente eccessivamente, perché continuerà a produrre e a vendere altrove. Questo devono fare le imprese italiane: evitare di mettere tutte le uova in un paniere. E devono imparare a valutare meglio i rischi. Di fronte a scenari che cambiano continuamente, gli amministratori delegati delle nostre imprese devono fare previsioni macroeconomiche e valutare bene tutti i rischi globali.
Come stanno cambiando le necessità di copertura finanziaria delle aziende italiane che decidono di andare all’estero?
In realtà è cambiato il mercato finanziario e le imprese italiane si stanno adeguando. Il nostro è un paese dove prevale il debito bancario. Basta guardare il mondo del private equity: è prevalentemente britannico e americano, in Italia facciamo fatica a raccogliere capitali per investire sui mercati internazionali. C’è poco ricorso ai bond. E in un mondo finanziario che sta rapidamente cambiando questo può rappresentare un problema. Basilea III porterà essenzialmente due problemi con i requisiti di capitale che impone alle banche: si dovrà ricorrere ad aumenti di capitale, che sono però molto onerosi e diluitivi per gli azionisti, oppure bisognerà cambiare modo di fare banca, perché verranno penalizzati i prestiti diretti (e quindi significa minore redditività) e aumenterà il costo della liquidità. Per questo vedo un 2011-2012 con forti problematiche di liquidità, soprattutto nei finanziamenti a medio-lungo termine. Inoltre, la copertura dei rischi degli investimenti sta diventando sempre più importante perché l’attenzione di chi vuole esportare deve indirizzarsi verso paesi sempre più lontani, non solo da un punto di vista geografico ma anche culturale. Vendere beni di consumo in America o in Pakistan è diverso. Occorre saldare la copertura del rischio di credito su export e Ide con operazioni che garantiscano la copertura finanziaria delle operazioni.
Una domanda sul vostro ruolo a sostegno degli investimenti diretti esteri. In Italia è forte la pressione contro le imprese che vogliono spostare la produzione all’estero. Non crede che, in un momento come questo, sia meglio produrre e dare lavoro in Italia per sostenere il sistema paese?
Questo dibattito è puramente ideologico. Il problema non è dove si produce, ma è di rendere il sistema paese competitivo. Bisogna aprirsi. Non vorrei che le crisi che scoppiano in molti paesi, a partire dall’Egitto, convincano le imprese italiane a tornare in patria: sarebbe un errore. Io credo invece che le crisi aprano grandi opportunità: bisogna coglierle, ovviamente gestendo, controllando e mitigando i rischi. Per l’Italia sarebbe necessario un maggiore sforzo per accompagnare le imprese all’estero: la Germania ha per esempio attuato una strategia di accompagnamento finanziario e sta raccogliendo risultati rilevanti. Quando si investe in un Paese estero, poi lì aumenta anche l’export dal Paese d’origine. È un effetto volano, la Germania insegna. Il Tesoro Usa lo fa a Mirafiori tramite Chrysler: denaro del contribuente americano, impianto italiano. La giapponese Japanese Eximbank ha finanziato la Sony quando ha aperto un impianto in Lombardia. Denaro pubblico giapponese per posti di lavoro italiani. Gran parte dell’impegno di Tokyo ormai è per operazioni di questo tipo: produzioni all’estero, non puro export.
Investimenti diretti all’estero ed export sono quindi due facce della stessa medaglia?
Sì, la localizzazione delle nostre imprese all’estero è un ottimo volano per l’export italiano. Prendiamo ad esempio l’asse Cina – Africa. C’è una forte correlazione tra alcune dinamiche delle due economie: l’Africa sub-sahariana indirizza circa il 10% delle sue esportazioni in Cina. E allo stesso tempo gli investimenti diretti cinesi in Africa sono di 5 miliardi circa di dollari pari, curiosamente, al 10% del loro export. Se avessimo investito di più in Africa avremmo sicuramente goduto dei vantaggi di un buon posizionamento su questo mercato. Per esempio nell’agroindustria, che già registra una presenza importante dell’Italia, una filiera che coinvolge anche sotto-settori come la logistica, l’inscatolamento, l’imbottigliamento o i macchinari. Per noi oggi un’operazione che ha contenuto italiano al 100% ma che pone forti rischi al nostro bilancio è operazione non sostenibile. La nostra è una valutazione relativa al rischio e quindi, se il rischio è buono, va bene anche se l’investimento è all’estero, purché ovviamente questo non comporti una totale delocalizzazione delle attività. In sostanza, per noi vale il criterio della sostenibilità economica dell’operazione e del rischio. Se vogliamo parlare di Fiat Serbia, il progetto relativo allo stabilimento di Kragujevac genererà un indotto di € 200 milioni per 60 fornitori italiani, nei settori delle infrastrutture e della logistica oltre che per l’approvvigionamento di beni e servizi per il funzionamento dell’impianto.
Crisi e globalizzazione mettono in discussione i paradigmi dell’export mondiale. Cosa significa oggi export italiano? Rispondo con esempio specifico: il caso Blackberry. Al G11 delle agenzie di credito all’esportazione tenutasi recentemente a Marsiglia, il mio omologo canadese ha spiegato che il business del Blackberry vale oggi per il Canada circa € 20 miliardi. Solo un decimo di questo valore, corrispondente alla parte di R&D, viene effettivamente “prodotto” in Canada, mentre il restante 90% viene prodotto in outsourcing da una rete di aziende che coinvolge oltre 20 paesi, dalla Cina al Messico. Si potrebbe accusare EDC (la “SACE” canadese) di non supportare la produzione domestica. Tuttavia, se fosse prodotto interamente in Canada, un dispositivo Blackberry avrebbe un costo di varie migliaia di dollari, con la conseguenza che se ne venderebbero pochi pezzi e Blackberry non sarebbe l’azienda di successo che è oggi.
Le aziende devono capire che definire l’export secondo un puro discorso “produttivo” è obsoleto. Prendiamo ad esempio il caso FIAT. È evidente che per vendere auto sul mercato brasiliano non si può esportarle dall’Italia ma bisogna ormai produrle in loco. La questione allora è la competitività del prodotto, non dove si produce. I prodotti Apple sono made in Mexico e designed in Silicon Valley… qualche riflessione sul Made in Italy va forse fatta.
Il problema dell’Italia e dell’Europa è il ritardo nella comprensione di quelli che saranno gli asset competitivi nei prossimi 20 anni. Innovazione, visione, competitività, livello delle scuole, produttività ne sono un esempio. Il nostro intervento deve essere rimodulato su considerazioni basate sulle nuove filiere produttive. In Italia poi c’è ancora un forte problema dimensionale. Molte delle imprese italiane sono troppo piccole per potere competere a pieno titolo sui mercati internazionali. Questo è il vero problema che ci troveremo a governare.
Mi ha molto stupito vedere che la vostra omologa americana, la US Exim Bank, proprio nei peggiori anni della crisi ha raggiunto livelli record di supporto all’industria USA. Come spiega questo fenomeno?
Nel marzo del 2010 il Presidente Obama ha fatto una chiara dichiarazione proprio in occasione della riunione annuale della US Exim Bank, dove ha annunciato la nuova strategia nazionale di supporto all’export. Obama ha definito chiaramente i target per i prossimi anni, indicando i paesi asiatici, Cina ed India in primis, come i mercati chiave su cui puntare per raggiungere l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni nazionali nei prossimi cinque anni. La priorità dichiarata degli USA è di ricomporre il debito e migliorare la bilancia commerciale. La US Exim Bank è in grado di fare funding diretto, cioè di indebitarsi direttamente sui mercati sostanzialmente senza limiti, vista l’ampiezza del mercato dei capitali e il rating tripla A degli Stati Uniti: cosa su cui oggi noi di SACE non possiamo contare per le condizioni dei debiti sovrani europei, oltre al fatto che questo uscirebbe dal nostro campo d’azione. Per questo ci conviene sfruttare il nuovo strumento di Export Banca, messo a punto con l’azionista Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti, che oggi ci consente di sfruttare i fondi raccolti tramite il risparmio postale al fine di sostenere le grandi operazioni di export. Stiamo realizzando la prima operazione, anche con il coinvolgimento del sistema bancario, con l’obiettivo di rendere le nostre aziende più competitive.
Da tutto quanto lei ci dice sembra di capire che ritiene che la struttura originale della legge Ossola sia superata. E’ così?
Noi dal 2004 non siamo più un ente pubblico e non usufruiamo di fondi pubblici. Abbiamo conto economico, premi, riserve. Le nostre attività nei rami credito e cauzioni sono vigilate da ISVAP. Siamo una Spa che deve seguire criteri di sostenibilità economica e di mercato. Abbiamo margini non elevati a fronte di rischi a volte elevati e non possiamo permetterci di fare troppi errori: se assicuriamo operazioni “sbagliate”, corriamo il rischio di esaurire il nostro capitale in tempi brevi e, quindi, la nostra capacità di intervento. In questo senso la legge Ossola è desueta. Va peraltro notato che SACE è stata, senza saperlo, il primo TARP del mondo (ndr: il TARP, Troubled Asset Relief Program, fu il programma lanciato dalla Presidenza degli Stati Uniti nell’ottobre 2008 per acquistare titoli tossici dalle istituzioni finanziarie, nel tentativo di rafforzarle dopo lo scoppio della crisi). Quando nel 2004 è avvenuta la trasformazione da ente pubblico in società per azioni, il Governo italiano ci ha conferito come capitale un importo elevato di crediti cosiddetti ristrutturati in sede Paris Club e di crediti non performing, che negli anni abbiamo ristrutturato, traendone anche qualche profitto. E’ la stessa cosa che Paulson ha fatto in America.
Come sta andando il factoring?
Molto bene, la nostra società prodotto SACE Fct ha già dato ottimi risultati nel suo primo anno di attività. Ne siamo quasi meravigliati, ma questo dimostra che c’è fortissimo interesse anche a causa dei persistenti problemi di liquidità del sistema. Sebbene il factoring non possa diventare il core business del nostro Gruppo, SACE Fct ha evidentemente saputo intercettare una domanda, forte e reale, da parte delle aziende con crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione, che ci sta consentendo di allargare l’attività anche agli altri prodotti di factoring tradizionale, compreso il factoring sui crediti esteri.
Cosa significa la forte esposizione del vostro portafoglio sull’Italia?
In realtà il nostro business in Italia è essenzialmente legato all’assicurazione del credito, al factoring e alle cauzioni: tutti interventi a “breve termine”, di durata non superiore ai 12 mesi. All’estero invece interveniamo a copertura di progetti pluriennali, i cui rischi restano nel nostro portafoglio per periodi molto più lunghi. Il peso dei singoli mercati emergenti nel nostro portafoglio può risultare minore in termini assoluti, ma è sicuramente maggiore in termini di rischio, proprio per la durata e la complessità delle operazioni che sosteniamo all’estero. Siamo un facilitatore di credito e di business, non un massimizzatore di profitti, fatta salva sempre la sostenibilità economico–finanziaria delle operazioni. In quest’ottica rientrano anche le nostre Garanzie finanziarie per l’internazionalizzazione, con cui garantiamo i finanziamenti concessi dalle banche alle nostre aziende che vanno all’estero, in modo da facilitarne l’erogazione.
Come spiega l’avversione alla copertura del rischio di credito da parte delle nostre imprese?
Questa è una specificità del mercato italiano, dove la percentuale di copertura del rischio di credito è la metà rispetto a quella del Nord Europa. Esiste ancora una forma di pregiudizio culturale delle nostre aziende nei confronti dell’assicurazione del credito, che richiede un grande sforzo di educationsia da parte nostra che da parte della stampa specializzata per far sì che gli imprenditori comprendano meglio i vantaggi dei nostri prodotti e non ne vedano solo i costi.
E’ proprio quello su cui FIRSTonline si sta impegnando, dedicando un’apposita sezione all’Export, inteso nel senso più generale della parola, come lo ha descritto lei.
Vuol dire che faremo un pezzo di strada insieme.