Da dove nasce l’idea del vulcanico ministro del Lavoro Luigi Di Maio di ripristinare la Cassa Integrazione per Cessazione dell’attività aziendale eliminata nel 2015 dal Jobs Act? Dalla sollecitudine per la sorte dei lavoratori coinvolti in crisi aziendali lasciate in eredità dai precedenti Governi, risponde paterno il ministro. A dire la verità i Governi Renzi e Gentiloni di crisi aziendali ne hanno risolte decine, ultima la Embraco. Ma non è tanto questo affermazione ad essere degna di nota, quanto il fatto che il “Governo del Cambiamento” coltivi l’idea che non ci saranno più crisi aziendali, perché la Legge le vieterà: per adesso abbiamo cominciato con le delocalizzazioni, (ma non finisce certo qui…).
Ciò che è stupefacente nell’intervista rilasciata al Corriere dall’erede di Gino Giugni è invece la motivazione “etica” di tale operazione: “…altrimenti finiscono nel vortice dei Centri per l’Impiego a 50-60 anni. Finché non li riformeremo (i Centri per l’Impiego) queste famiglie hanno bisogno di aiuto”.
Per capire quest’affermazione occorre fare il punto su ciò che prevede in merito il Jobs Act: la Cassa Integrazione Straordinaria, erogata in caso di crisi aziendali che richiedano processi di ristrutturazione, dura al massimo 24 mesi, contro una prassi consolidata negli ultimi 35 anni che, tra un escamotage e l’altro, consentiva di stare in CIGS anche un numero spropositato di anni perfino ad aziende chiusa da un pezzo. Il Jobs Act prevede che trascorsi i 24 mesi di CIGS senza che vi sia stato rientro in azienda (salvo casi eccezionali da verificare di volta in volta) il lavoratore perde il rapporto di lavoro e percepisce, per un massimo di due anni, la NASPI, in sostanza un’indennità di disoccupazione.
Con provvedimenti successivi al Jobs Act i Governi Renzi e Gentiloni hanno stabilito un rapporto stretto tra la percezione della NASPI e la partecipazione a politiche attive di ricollocamento, tramite l’istituzione dell’Assegno di Ricollocazione, che su base volontaria finanzia la partecipazione del lavoratore disoccupato a programmi di ricollocamento, e viene pagato al ricollocatore solo in caso di esito positivo. È il tentativo di portare il mercato del lavoro italiano a livello di quelli europei, in cui alla perdita del lavoro si risponde naturalmente con misure di sostegno al reddito, ma soprattutto di ricollocazione: le Politiche Attive.
Si tratta di una rivoluzione prima di tutto culturale, per un Paese abituato a ragionare in termini di assistenza come misura sovrana contro la disoccupazione, e nel quale vige l’idea di un welfare fai-da-te, in cui all’indennità di Cassa Integrazione si affianca un po’ di attività in nero.
L’idea stessa di ricollocamento è vissuta come un disturbo rispetto alla soluzione “Cassa Integrazione + Arrangiamoci”. Il problema è che queste soluzioni sono sempre state ampiamente condivise e popolari (i lavoratori riuscivano ad arrangiarsi, i Sindacati potevano mostrare di aver tutelato il reddito dei lavoratori, i politici foraggiavano le proprie clientele) nella misura in cui tanto pagava lo Stato (che in Italia, come si sa, non siamo tutti noi ma un’entità estranea che, in modi misteriosi, deve provvedere…); ma la criticità ancor più grave era che i lavoratori adagiatisi in queste situazioni diventavano irricollocabili e formavano una sacca di disoccupazione da mantenere a vita: a questo si deve l’istituto del prepensionamento.
Il Jobs Act ha precisato che la Cassa Integrazione ha un termine preciso e (tanto più se c’è la cessazione dell’attività dell’impresa), non può durare ad libitum. Ha integrato l’indennità di disoccupazione (NASPI) con sostegni economici al ricollocamento (Assegno di Ricollocazione). Successivamente ha consentito che un lavoratore coinvolto in una crisi aziendale che potrebbe generare esuberi possa avere l’Assegno di Ricollocazione anche se non sia ancora stato licenziato. Questo perché le possibilità di ricollocare un lavoratore diminuiscono al prolungarsi dello stato di disoccupazione (l’esperienza dice che la difficoltà statisticamente cresce a partire dal quarto mese di disoccupazione).
Se ci sono punti deboli nel sistema istituto dal Jobs Act sono essenzialmente nel fatto che l’Assegno di Ricollocazione è volontario, e basta che venga attivato prima che scada il NASPI (24 mesi) cioè troppo tardi per rendere credibile una ricollocazione. Nella gran parte dei Paesi Europei la partecipazione a programmi di ricollocamento è obbligatoria, pena la perdita dell’indennità di disoccupazione.
Su tutt’altro orizzonte si muove il “Governo del Cambiamento”: come evidente il primo obiettivo del ripristino della Cassa per Cessazione è prolungare il periodo di sussidio al reddito (un anno di CIG + 2 di NASPI, e poi chi l’ha detto che la CIG per cessazione debba essere di solo un anno..?). Siccome però di Politiche Attive ne hanno sentito parlare, non escludono che in futuro, quando avranno “riformato i Centri per l’Impiego” si possano anche fare. Adesso no, perché i Centri per l’Impiego sono un “vortice”.
In realtà i Centri per l’Impiego non sono lo strumento sine qua non per il collocamento. Dove l’esperienza del ricollocamento funziona (come in Lombardia) operano assieme i CPI e altri soggetti privati accreditati dalla Regione, con risultati molto buoni. Però evidentemente al Ministro non risulta, o se gli risulta guarda con sospetto a questa “privatizzazione del collocamento”: del resto già ha provato a penalizzare il lavoro in somministrazione nel cosiddetto Decreto Dignità.
Ma in fondo l’interesse del ministro per i Centri per l’Impiego prescinde del tutto dal problema del ricollocamento, che i 5S derubricano a semplice effetto collaterale della vera rivoluzione: il Reddito di Cittadinanza. Poiché questo dovrebbe essere il grande leviatano del welfare e del mercato del lavoro: sussidi di disoccupazione, servizi al lavoro, assegni di sussistenza, contrasto alla povertà, tutto verrà integrato in questo salvifico e miracoloso strumento gestito beninteso direttamente dall’Amministrazione Pubblica. L’idea stessa di politiche del lavoro cede il passo davanti a questa grandiosa visione di uno Stato che garantisce a tutti un reddito, rispetto alla quale il lavoro è un’auspicabile ipotesi, ma non fondante del sistema sociale. Esattamente il contrario del dettato costituzionale, cui troppi rendono omaggio con retorica strumentale, che disegna un’Italia “fondata sul lavoro”.
E non si tratta soltanto di un problema di risorse: sarebbe già uno sforzo enorme garantire a tutti l’Assegno di Ricollocazione, e chiaramente se si finanzia un allungamento della Cassa Integrazione lo si fa a spese delle risorse per il Ricollocamento. È anche una questione culturale: il Paese ha bisogno di più occupazione, che non si crea con decreti e divieti ma anche con un mercato del lavoro moderno, in cui chi perde il lavoro dispone degli strumenti di cui ha bisogno per trovarne un altro.
Ma per il “Governo del Cambiamento” la priorità evidentemente non è l’occupazione bensì il reddito garantito a tutti cittadini. Per cui è logico che nella scala delle urgenze venga prima il prolungamento dell’assistenza al disoccupato piuttosto che rendere più efficienti e finanziate le politiche per il ricollocamento.
Il “Governo del Cambiamento” sta riportando il mercato del lavoro al XX secolo: non sorprendente in fondo, per chi pone la decrescita felice come orizzonte del proprio agire.