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Cash o bond, che cosa conviene di più se i tassi salgono?

ImagoEconomica

Come il Barocco, la finanza è il regno del trompe-l’oeil e delle dissonanze cognitive. Nessuno si lamenta troppo se il suo portafoglio rende l’uno per cento con l’inflazione al due. Tutti ci lamentiamo molto se il portafoglio perde mezzo punto con l’inflazione a zero.

Questo avviene anche nella vita reale. Si accetta un anno senza aumenti di stipendio anche se c’è un’inflazione del due per cento. Ci si sente trattati molto ingiustamente se si vede la retribuzione tagliata dell’uno per cento con l’inflazione a zero. Keynes, pensando più da pensando più da psicologo che da economista, diceva che bisognava fare leva su queste distorsioni cognitive e promuovere un’inflazione moderata ma sistematica per redistribuire la ricchezza e per permettere, all’occorrenza, di abbassare i salari senza creare troppi attriti.

All’illusione ottica monetario/reale il mondo obbligazionario ne aggiunge altre di suo. Sarà capitato a molti, in questi anni, di notare come un bond a 120 con cedola del 5 e scadenza a 4 anni suonasse molto meglio di uno a 100 con cedola zero e stessa scadenza (non contiamo gli interessi composti per semplicità).

L’illusione ottica diventava ancora più irresistibile nel caso si fosse comprato il bond con il 5 di cedola in emissione, ovvero a 100. In questo caso, vedendolo salito a 120, si aveva la sensazione di avere intascato un capital gain e, al tempo stesso, di avere ancora diritto a una bella cedola del 5%. Il pensiero che il 120, nel tempo, sarebbe tornato a 100 veniva rinviato a un futuro vago e lontano o rimosso del tutto. Mangiare la torta e continuare a possederla, si dice in inglese. Double counting, diciamo in italiano.

Questa piacevole illusione si trasforma in una percezione molto sgradevole (anche se altrettanto illusoria) nel momento in cui i tassi di mercato, invece di continuare a scendere, iniziano a salire. Se compro un bond a 4 anni a 100 con cedola dell’uno per cento so in partenza che, a scadenza, avrò 104. Se però dopo il mio acquisto i tassi di mercato salgono, il mio bond scenderà di prezzo e a fine anno lo vedrò, poniamo, a 98. Certo, avrò incassato la cedola di uno, ma il risultato complessivo sarà 99 e avrò quindi la sensazione di avere perso l’uno per cento, per di più su uno strumento, il bond, che mi aspettavo essere stabile e sicuro. Chiamerò allora il mio banker e, mostrando tutta la mia delusione, gli chiederò conto di questa perdita. Lui mi risponderà dicendomi di stare tranquillo, perché il mio 104 alla fine della vita del bond non me lo toglierà nessuno (lo stesso 104 che mi pareva interessante quando l’ho comprato), ma io rimarrò lo stesso con l’amaro in bocca.

La constatazione che i bond possono scendere di prezzo è nota a chi seguiva i mercati negli anni Settanta (o a chi ha studiato quegli anni) ma è una novità, quanto meno in termini emotivi, per molti di quelli che sono venuti dopo. Certo, all’interno di quasi quarant’anni di rialzi obbligazionari dal 1981 a oggi ci sono stati momenti di ribasso, tipicamente in due fasi del ciclo, quella in cui i tassi iniziano a salire in modo significativo (e cioè a metà o a tre quarti del ciclo) e nella fase finale.

Nella prima di queste fasi scendono di solito i bond lunghi e gli emergenti, nella seconda vengono colpiti i titoli più brevi. Il danno prodotto da queste fasi di ribasso in questi quarant’anni è stato rilevante soprattutto per gli istituzionali, abituati a operare a leva. Il grande pubblico se ne è accorto poco, perché i rendimenti a tre-cinque anni sono stati sempre abbastanza alti (fino al 2009) da non incoraggiare un’esposizione significativa su scadenze lunghe, emergenti e crediti.

Dopo il 2009, tuttavia, l’assenza di rendimento sul breve e sul sicuro ha spinto il grande pubblico ad avventurarsi nel lungo e nell’incerto. Lo shock di oggi è quindi doppio. Da una parte la brusca disintossicazione per il venir meno di quei capital gain obbligazionari che sembravano ormai un diritto acquisito, dall’altra la maggiore esposizione al lungo e all’incerto, in particolare agli emergenti.

Le minusvalenze di periodo sui bond inducono molti investitori a domandarsi se, da qui in avanti, non sia meglio il cash, sul quale almeno non si perde. La risposta lunga a questa domanda è che dipende dai casi. Prima di scendere nei dettagli va ricordato che le banche, fino a oggi, non hanno scaricato sui depositi dei clienti in euro i tassi negativi sulla liquidità. In futuro, verosimilmente, non sarà più così soprattutto se, alla prossima recessione, i tassi scenderanno in profondità sotto lo zero. Va poi considerato che un deposito è un prestito alla banca fatto in tempi di bail-in.

Dall’altra parte, a svantaggio dei bond, va ricordato che lo spread tra denaro e lettera in questi anni si è allargato. Prima del 2008 i market maker avevano un magazzino pari al 10 per cento dell’intero mercato obbligazionario. Era una quantità enorme, ovviamente finanziata a debito, che forniva agli intermediari un grande carry positivo e ai clienti un mercato molto fluido e liquido. Dopo il 2008 i regolatori hanno ristretto sempre di più lo spazio del magazzino titoli e questo ha reso più difficile e costoso comprare e vendere bond. La diminuzione di liquidità prevista per i prossimi anni peggiorerà ulteriormente le cose.

Detto questo, quello che è decisivo è l’orizzonte temporale di chi compera bond o decide di restare liquido. Se è breve, conviene il cash, se è lungo convengono i bond. Per quanto bassi siano i rendimenti, negli anni fanno la differenza. All’obiezione che il prezzo da sopportare per questi rendimenti sono la volatilità e il rischio di finire intrappolati con cedole basse nel caso i tassi salgano si può rispondere suggerendo i titoli indicizzati all’inflazione, meno volatili (se non sono troppo lunghi) e capaci di adeguarsi ai tassi crescenti.

La risposta breve all’alternativa cash/bond in questo momento è che potrebbero comunque convenire i bond. Nel mercato circola quasi esclusivamente la narrazione di fine ciclo. I tassi saliranno in modo lineare fino al momento in cui le economie non ce la faranno più e andranno in recessione. Jamie Dimon ha fatto molto rumore in questi giorni dicendo di stare pronti a tassi al 4 per cento.

C’è però un’altra tesi di minoranza, ma suggestiva, avanzata da David Zervos. Questo non è necessariamente il ribasso obbligazionario che precede la recessione, dice, ma potrebbe essere quello che tipicamente reagisce alla prima fase di rialzo dei tassi. Una volta adeguati tassi e curva alla nuova realtà ci si può anche fermare (o comunque rallentare) soprattutto se il rialzo avvenuto finora si porta dietro un rafforzamento del dollaro. La prossima fase potrebbe dunque essere di stabilizzazione e non precluderebbe la possibilità di un prolungamento dell’espansione e di un lento apprezzamento azionario.

In conclusione, per i bond si è chiusa una fase storica particolarmente felice e atipica, ma non per questo se ne è per forza aperta una marcatamente negativa. Come ha sempre detto Bill Gross, gli investitori dovrebbero essere contenti quando i tassi salgono.

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