Per i napoletani veraci non è Pasqua se non c’è in tavola il Casatiello perché quella torta rustica che campeggia su tutte le tavole della domenica pasquale e ancor più su quelle della Pasquetta, racchiude in sé lo spirito, la storia, la tradizione, la filosofia, il passato e il presente dell’anima partenopea.
Perché se qualcuno pensa che si tratti unicamente di una saporitissima torta salata da mangiare assieme al salame, alle uova sode, al formaggio e, stagioni permettendo, alle fave, nelle festività pasquali sbaglia veramente di grosso. Casatiello è un microcosmo complesso che rispecchia l’anima napoletana con le sue storie e la sua povertà. E’ prodotto principe della cucina di recupero, di quella cucina dove si impiegavano i prodotti avanzati, gelosamente custoditi, perché nulla doveva andare buttato.
Partiamo quindi dal nome: Casatiello. Questo la dice lunga sulla sua nascita. Il nome gli deriva da Caseus, formaggio in latino, da cui il Caso, come viene chiamato il formaggio a Napoli, il motivo è abbastanza evidente dall’abbondanza di provolone e pecorino per la sua preparazione, come si vedrà nella ricetta.
Un concentrato di simbologie cristiane e pagane
Il Casatiello napoletano è una torta formata da un impasto di farine da pane che ha subito due lievitazioni integrato da una buona dose di ‘nzogna – sugna e non strutto, la cosa fa differenza – pepe in abbondanza, sale. cicoli o Ciccioli, ovvero piccoli bocconcini appetitosi ricavati dalla bollitura a lungo del grasso di maiale, pecorino, salame dolce o piccante, provolone semipiccante, formaggio parmigiano, e ancora se lo si desidera, ma qui entriamo nelle diverse scuole di pensiero territoriale, pancetta, prosciutto, mortadella e tanto altro ancora. Il tutto viene lavorato fino a formare un rotolo a forma di ciambella che viene adagiato poi in una teglia con il buco al centro e alcune uova intere inserite a metà nell’impasto, e messo a cuocere in forno.
In realtà questo dovrebbe avvenire non in quello di casa ma in un forno a legna per dare alla torta la giusta umidità e la giusta croccantezza.
E qui cominciamo ad addentrarsi nell’analisi specifica dei vari significati di questo straordinario prodotto della gastronomia napoletana.
Intanto partiamo da un concetto di base. Il Casatiello, con tutto quel po’ po’ di ben di dio, era, anticamente, già una festa nella festa. Per il popolo dei bassi, per quella umanità che viveva all’ombra dei ricchi, che non poteva certo permettersi lussi, un piatto così ricco era una cosa straordinaria attorno a cui si riuniva tutta la famiglia per festeggiare la resurrezione di Cristo. Già la sua preparazione impegnava le donne di casa almeno una settimana prima. Perché non si volevano correre rischi e se fosse venuto male occorreva tempo per correre ai ripari con una nuova preparazione. Il Casatiello era anche un momento di forte socializzazione, Nella Napoli antica le persone che abitavano in miseri locali non disponevano di cucina o di forni. Per cui tutte le donne con il frutto della loro fatica si presentavano al forno di quartiere e si mettevano in fila per la cottura.
Nell’attesa si creava una specie di villaggio in cui ci si ritrovava tutti, ci si scambiavano informazioni sui parenti e conoscenti, si commentava la vita di quartiere, si faceva qualche pettegolezzo, insomma il forno era una sorta di foro dei poveri o meglio delle povere. E quest’usanza è ancora tenuta in vita a Napoli da una rosticceria del Rione Sanità, notoriamente uno dei quartieri più disagiati città, regno dell’emarginazione, che ancora oggi usa aprire il suo forno alle donne che vogliono cuocere il loro Casatiello. Una tradizione di fratellanza dunque che ben si inserisce nello spirito di fratellanza universale che anima la festività religiosa della Pasqua.
E già che parliamo di fratellanza arriviamo al recondito significato religioso di questa torta salata che celebra uno dei momenti salienti della cristianità, la resurrezione del figlio di Dio.
Intanto la materia prima usata è il pane, l’elemento cardine dell’Eucarestia che Gesù istituì nell’ultima cena con gli Apostoli (“Per lasciare loro un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi e renderli partecipi della sua pasqua, istituì l’Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e comandò ai suoi Apostoli di celebrarla fino al suo ritorno”). La sua forma è circolare e questo perché ricorda la corona di spine che i soldati imposero per scherno sulla sua testa. Ma la circolarità della ciambella racchiude anche il significato religioso della vita che si rinnova.
Al momento di infornare la torta sulle uova inserite nell’impasto vengono poste alcune striscioline di pasta incrociate, e questo ricorda la croce su cui Cristo trovò la morte. E le uova? Forse di tutti i simboli, l’uovo è il più complesso. E’ il seme primordiale da cui si origina il mondo. Segna la vita che rinasce, dell’uomo figlio di Dio che con la resurrezione rinasce Dio, il principio vitale che lega l’umanità al mistero della fede. E’ lo stesso uovo che si ritrova in molte chiese dell’oriente cristiano ortodosso veniva appeso come simbolo di rinascita, di vita, di resurrezione, ed è ancora l’uovo che Piero della Francesca nella pala di Brera sospende in alto sulla Madonna in trono con il bambino, Angeli a Santi come, come punto di incrocio delle linee che attraversano la composizione, soprattutto come simbolo della perfezione divina e della rinascita dell’umanità. Per questo poi a Pasqua troviamo l’uovo in tutte le forme e tutte le materie, uovo sodo, uovo colorato, uovo di cioccolato.
E tutto quanto detto fin’ora riguarda solo la superficie esterna del Casatiello così come si mostra, per quanto attiene al suo essere elemento di celebrazione di un grande momento della cristianità.
Se poi andiamo ad esaminare il suo interno, se andiamo per così dire, sotto coperta, allora troveremo altri significati ancora che ci riportano alla Bibbia e perfino al mondo pagano in aderenza allo stereotipo del popolo napoletano che ama sempre stupire, presentarsi sotto duplici aspetti, affrontare la vita fra dramma e ironia.
Cominciamo dunque dal pecorino che si fa con il latte di pecora, il latte di cui si ciba l’agnello. E questo ci porta al Nuovo Testamento a San Giovanni Battista che accoglie Gesù: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Agnello dunque come simbolo di purezza e di innocenza.
Ma dal Nuovo ci troviamo ad andare a ritroso nel vecchio testamento alla cultura ebraica per cui l’agnello è simbolo di sacrificio ricorrente. Non solo nell’Esodo è Dio in persona a ordinare il sacrificio di agnelli per la pasqua ebraica: ”: “Ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa”.
Tuttavia accanto all’Agnello troviamo al suo opposto, i cicoli, prodotto del maiale, animale segno di abbondanza per gli strati più umili della popolazione nel corso dei secoli, ma animale impuro per la cultura ebraica, non ne parliamo neppure per quella musulmana, che Dio nel levitico, dando istruzioni a Mosé, definisce addirittura “Immondo”. Ed è veramente curioso, considerando che nell’iconografia cristiana sia preso a emblema del peccato, dell’ingordigia e dell’ignoranza, che il maiale entri nella celebrazione della Pasqua. Questa è Napoli!
Cibo dei poveri, ma nobilitato da Lo cunto de li cunti
Cibo umile, cibo dei diseredati, cibo della povertà atavica, eppure il Casatiello più di qualsiasi altro elemento della gastronomia napoletana ha avuto l’onore di essere oggetto di composizioni poetiche, di versetti scherzosi, in una sua forma orginaria prima dell’inserimento delle uoma figurerebbe in un dipinto di Giacomo Nani a Palazzo Reale, perfino di opere letterarie importanti.
Sicuramente si può affermare che la diffusione del casatiello, possa essere ufficialmente attestata almeno a partire dal Seicento.
Nobilmente nella favola de La gatta Cenerentola inclusa nel celebre “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, scrittore napoletano vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la torta rustica viene citata come una delle portate per i festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso lo scarpino:
«E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che ’nce poteva magnare n’asserceto formato.»
Ma ci sono composizioni anche meno umili che registrano il forte legame fra i napoletani e il Casatiello e in maniera molto appassionata e simpatica, come questa che segue che elenca golosamente tutte le componenti :
Pasqua, Gesù è risorto. Tutto è bello,
pure pecchè se mangia ‘o casatiello.
Rotunno, gruosso, grasso e sapurito,
‘o vide, e te rinasce l’appetito.
Che d’è, te ne vuò fa sulo na’ fetta?
Cu chella ce può fa Pasqua e Pasquetta.
Salame, pepe, nzogna, acqua e farina,
e nu’ sacco ‘e formaggio pecorino:
ce vonno pur’e cicole ‘e maiale,
ca so’ pesante, ma nun fann male.
Pe copp’o casatiello stanno ll’ova:
ma comm’o po’ capì, chi nunn’o prova?
Ma consigliamo di andare a cercare su internet un esilarante “A leggenda d’o casatiello” dove si narra in versi l’impazienza di Dio perché non vede salire in cielo Gesù Cristo dopo la morte sulla Croce. Il Padre decide dunque di scendere personalmente sulla terra per andare alla ricerca del figlio e te lo trova con un gruppo di amici che sta mangiando un saporito Casatiello.
Riportiamo solo la strofa finale con Gesù che si giustifica con Padre per la sua “ragazzata”:
“Turnann’a nuje: ve site preoccupate,
ca chi ‘o ssape che m’era capitate…
Va buono, mò è fernuto ‘o melodramma.
Saluto a chest’amice, e ce ne jamme.
Ragazzi, fate il Bene, e non il Male:
ce vedimme al Giudizio Universale.
Ma ‘o casatiello, me l’aggià purtà,
pecchè pure Mammà l’adda pruvà.
Papà, dacce nu’ muorzo, pe’ favore,
e mi perdonerai di tutto cuore:
m’aggio creduto, appena l’ho assaggiato,
ca ‘n Paraviso, i’ già c’ero arrivato!”
Ecco questa è Napoli. E d’ora in poi quando vi capiterà di mangiare questa chicca gastronomica napoletana, sappiate che state mangiando non una torta ma un condensato di storia religiosa, di cultura laica e di vita.