L’ìmpennata e soprattutto la permanenza dello spread oltre quota 300 rischiano di costare molto caro alle banche italiane. In due sensi: in primo luogo perché il deprezzamento dei titoli di Stato che hanno in pancia pesa sul loro stato patrimoniale e, in ossequio alle vincolanti regole della Vigilanza bancaria europea, prima o poi costringerà qualche banca a procedere verso nuovi difficilissimi aumenti di capitale. In secondo luogo perché l’aumento dello spread fa lievitare anche il costo della raccolta bancaria dovendo allineare i rendimenti dei bond bancari all’andamento del mercato. E’ il costo del Rischio Italia che sale da maggio e che si sta rivelando una vera e propria corda al collo del Paese.
Banca Carige ha avviato ieri il lancio di un bond subordinato per investitori istituzionali al 13%: si dirà che che è un caso eccezionale, visto lo stato comatoso della banca ligure. Ma del costo della raccolta sta facendo le spese perfino Unicredit che l’altro giorno è stata costretta a pagare il 4,52% di rendimento per un suo super-bond da 3 miliardi di dollari. Non sorprende che il numero uno di Banco Bpm, Giuseppe Castagna, allarghi le braccia e dica: “Non possiamo permetterci operazioni con tassi così alti”.
Deutsche Bank è arrivata a stimare che per le sette principali banche italiane il costo del caro spread potrebbe arrivare a un miliardo di euro nel 2019 ed è fin troppo facile immaginare che, insieme alle banche, a farne le spese saranno conseguentemente le famiglie e le imprese con il rincaro dei mutui e dei prestiti ma anche con la stretta del credito che alimenta il ritorno degli incubi del credit crunch.
Ma il caro spread non è l’unico tormento che attraversa di questi tempi il sistema bancario. Nell’occhio del ciclone – e sarebbe una vera jattura – rischia di finire anche l’oro della Banca d’Italia. L’altro giorno una spericolata dichiarazione del presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi, ha sollevato il problema con la proposta di trasferire allo Stato la proprietà delle riserve auree della Banca d’Italia, che ne resterebbe solo depositaria, ignorando del tutto i Trattati internazionali che regolano la materia e il fatto che parte dell’oro che sta nei caveau di Via Nazionale è di spettanza della Bce.
Un recente libro del Direttore Generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, “Oro”, ha raccontato storia, vita e miracoli delle riserve auree dell’Istituto di Via Nazionale e sarebbe il caso di rileggerlo attentamente prima di compiere sciocchezze.
Le riserve auree della Banca d’Italia ammontano oggi a 85,3 miliardi di euro ma non sono un lusso: come ha scritto benissimo Il Sole 24 Ore “sono un baluardo a difesa delle crisi valutarie e contro il rischio sovrano e servono a rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano e della moneta unica”.
Non è la prima volta che ci si interroga sul destino dell’oro della Banca d’Italia ma a fare la differenza sono gli obiettivi e la tempistica di progetti del genere. Nel 2009 l’allora ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, cercò di tassare le plusvalenze sull’oro della Banca d’Italia ma fu fermato dalla Bce. Nel 2011, in piena crisi dei debiti sovrani, Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio ipotizzarono un diverso utilizzo delle riserve auree delle banche centrali ma all’interno di un Fondo finanziario europeo che aveva il nobile obiettivo di abbattere il debito pubblico rilevando 2,3 trilioni di titoli di Stato dell’Eurozona.
Mettere le mani oggi sull’oro della Banca d’Italia sarebbe invece doppiamente delittuoso. Lo sarebbe per la tempistica e lo sarebbe per il fine che si intuisce fin troppo facilmente.
Non occorre essere dei geni per comprendere che pensare di utilizzare le riserve auree della Banca d’Italia nel momento in cui il Governo italiano è impegnato nella complessa trattativa con la Commissione europea per evitare la procedura d’infrazione sulla manovra di bilancio sarebbe un vero boomerang e non potrebbe che dare l’immagine di un Paese con l’acqua alla gola se è perfino costretto ad espropriare la Banca d’Italia delle sue riserve.
Ma, se si osserva bene la genesi e il cammino della manovra di bilancio costruita principalmente con l’occhio ai ritorni elettorali, c’è un’altra ragione per opporsi all’uso dell’oro della Banca d’Italia: quel tesoro non sarebbe destinato ad abbattere il debito o a creare realmente più crescita e più occupazione ma a finanziare gli aumenti di spesa che servirebbero al Governo non per fare le riforme ma per assecondare le più strampalate promesse elettorali. Ecco perché, al di là dei vincoli dei Trattati internazionali, l’oro della Banca d’Italia è bene che stia la dove è adesso.