Il divieto alla produzione e vendita della carne coltivata deciso dal governo e firmato non si può ridurre a una battaglia ideologica. È netta la presa di posizione di Barbara Nappini presidente di Slow Food Italia che boccia la decisione governativa. “E’ un tema complesso, che ha a che fare con il sistema alimentare, il suolo, il paesaggio, la cultura del cibo e la sovranità alimentare. Non servono provvedimenti che vietino la produzione e la vendita di alimenti prodotti da colture cellulari o tessuti di animali come quello appena divenuto ufficialmente legge, ma informazioni corrette, che consentano a tutti di scegliere. Proibire è una scorciatoia. Serve un’analisi onesta, capace di accogliere la complessità».
Bruno Barbieri: sperimentare fa parte dell’anima dello chef, serve a capire che cosa succederà nei prossimi vent’ anni
Una critica implicita al divieto deciso dal governo viene anche dallo Chef Bruno Barbieri che in una intervista a La Stampa a proposito della carne coltivata afferma «L’ho già provata e ho il mio pensiero in merito: sperimentare fa parte dell’anima dello chef e non sono uno che chiude le porte. Le farine di grillo le ho mangiate 20 anni fa e la birra con la macerazione delle formiche 15 anni fa. Quando si fanno entrare queste materie in una filiera produttiva è normale che ci si interroghi ma perché dobbiamo precluderci delle cose? Forse essere curiosi e provarle serve a capire che cosa succederà nei prossimi vent’ anni».
Il cibo non è un carburante per far funzionare l’organismo, somma algebrica di proteine, grassi e carboidrati. Il cibo è prima di tutto espressione culturale, linguaggio. È parte integrante dell’identità dei popoli, frutto di saperi, tradizioni, innovazioni, scambi di conoscenza. Secondo Slow Food, il problema di un’eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori, ma si affronta analizzando e modificando il modello che ha originato questa distorsione.
Un modello che ha trasformato l’agricoltura in industria e l’ha consegnata alla finanza, spezzando il suo legame con la terra e la natura, trasformando un’attività circolare (dove nulla era scarto) in un settore che produce più del 30% delle emissioni di CO2, inquina la terra e l’acqua, compromette la nostra salute. E fa tutto questo in nome di una popolazione in crescita da sfamare, nascondendo la verità di un cibo prodotto per essere in buona parte sprecato. «Oggi una manciata di multinazionali controlla quasi tutto: la produzione di semi, fertilizzanti chimici, pesticidi, mangimi, prodotti farmaceutici; la genetica animale, l’allevamento, la macellazione, la distribuzione; perfino le compagnie nautiche che trasportano mangimi e farine attraverso il globo» continua Nappini.
Nappini: le multinazionali controllano sia la ricerca che la filiera della carne
È sufficiente dare un’occhiata all’elenco dei finanziatori della ricerca sulla carne coltivata per capire quale sia la direzione: da Bill Gates a Sergey Brin di Amazon a Richard Branson della Virgin Group. Ma anche JBS, Cargill e Tyson Foods, ovvero le stesse multinazionali che controllano la filiera della carne. Di fatto, proprio chi è fra i principali responsabili della deriva attuale dell’allevamento – e ne detiene il controllo a livello globale -, ora che il settore inizia a intravedere minacce all’orizzonte investe sulla carne coltivata usando gli stessi strumenti e gli stessi schemi: brevetti e monopoli.
Fondazione Veronesi: il modello attuale di produzione alimentare, in particolare di carne, non è più sostenibile per il pianeta
Sulla stessa linea è l’autorevole presa di posizione della Fondazione Veronesi: “Certo è che il modello attuale di produzione alimentare, in particolare di carne, risulta non essere più sostenibile per un pianeta, e una popolazione, che sta attraversando questa crisi climatica. Diventa quindi importante individuare tutte le possibili soluzioni che possono apportare vantaggi all’ambiente, al benessere degli animali e alla salute umana, compresa la carne coltivata.
Le razze degli animali allevati – prosegue la Fondazione Veronesi – sono state altamente selezionate, così tanto che se venissero liberati non sarebbero in grado di sopravvivere, l’elevato impiego di farmaci, ormoni e antibiotici per tutelare la salute dei capi allevati e diversi altri aspetti. La produzione alimentare è uno dei settori maggiormente impattanti dal punto di vista ambientale. Di questo settore, la produzione di carne è la maggior responsabile di questi impatti. La gestione e mantenimento degli allevamenti attuali sono un grande problema che dovremo affrontare in futuro, un problema etico, se pensiamo alla sofferenza degli animali allevati; un problema ambientale, se pensiamo alle emissioni, all’uso di suolo e di acqua che ne deriva; un problema di salute, se pensiamo alla possibilità di diffusione di zoonosi e alla responsabilità rispetto all’antibiotico resistenza.
La ricerca deve necessariamente trovare delle valide alternative al consumo di carne
Per questo motivo la ricerca deve necessariamente trovare delle valide alternative al consumo di carne. Possiamo scegliere di non consumarla più, opzione che può essere applicata dai paesi sviluppati, realtà che sta in parte già avvenendo ma scegliere di vietare del tutto il consumo di carne limiterebbe la scelta individuale. In alternativa può essere una soluzione trovare nuovi modi per produrla, oltre a continuare a prevedere una sua riduzione e sostituzione con alimenti di origine vegetale. Si osservano quindi aspetti positivi dal punto di vista etico, che riguardano la riduzione della sofferenza animale e del numero di capi di bestiame allevati. E aspetti positivi dal punto di vista ambientale, in quanto tutti i sostituti della carne hanno un impatto sull’ambiente inferiore rispetto alla produzione di carne di manzo e di agnello.
L’invito che lancia Slow Food Italia è proprio su questo: «Vogliamo aprire una riflessione su un modello diverso di allevamento, che si ponga onestamente delle domande sull’accesso alle risorse naturali e sul diritto alla sovranità alimentare» conclude Nappini.
Quello su cui Slow Food lavora da anni attraverso i propri progetti: un modello che si ricolleghi al suolo, al foraggio dei prati stabili e dei pascoli, che tenga in considerazione l’etologia degli animali e la rispetti. Su regimi alimentari più equilibrati, che prevedano una riduzione del consumo di carne e un incremento dell’apporto proteico vegetale, tramite i preziosi legumi, che arricchiscono il suolo e richiedono poca acqua. Su un sistema alimentare che produca un’economia diffusa, salute, benessere; che generi bellezza e non deturpi il paesaggio; che tuteli la biodiversità; che contrasti lo spopolamento delle aree interne (il 70% del territorio italiano) sostenendo le piccole aziende che presidiano le terre alte e le preservano dal dissesto idrogeologico (aziende che continuano a chiudere a favore di stabilimenti di pianura sempre più grandi).