Condividi

Canada, Canale di Panama e Groenlandia: l’espansionismo trumpiano non conosce limiti

Un’analisi storica e politica delle ambizioni espansionistiche degli Stati Uniti, dai tentativi di annessione del Canada alle provocazioni di Trump: un viaggio tra passato e presente

Canada, Canale di Panama e Groenlandia: l’espansionismo trumpiano non conosce limiti

Natale è il periodo dello shopping anche per Donald Trump. Ma il presidente eletto degli Stati Uniti promette di fare acquisti in grande stile e progetta di mettere sotto l’abete della Casa Bianca o nella calza della Befana la Groenlandia, che vorrebbe far vendere dalla Danimarca agli Stati Uniti, il canale di Panama, che intenderebbe riportare sotto il controllo di Washington dopo un quarto di secolo di sovranità panamense, e perfino il Canada, che sarebbe orientato a trasformare nel 51° Stato dell’Unione con modalità che The Donald non ha provato neppure a ipotizzare.

Trump sulle orme dei suoi predecessori

Nessuno di questi obiettivi rappresenta una novità nella politica espansionistica degli Stati Uniti. Il Canada era entrato nelle mire statunitensi addirittura al tempo della guerra d’indipendenza dalla Gran Bretagna alla fine del Settecento.

William Seward, il segretario di Stato del presidente Andrew Johnson, aveva provato a farsi cedere la Groenlandia dalla Danimarca nel 1867 e lo stesso Trump aveva avanzato l’idea di comprare l’isola da Copenaghen già nell’agosto del 2019.

Il canale che collega l’Atlantico al Pacifico fu scavato dal genio militare statunitense tra il 1907 e il 1914. Washington aveva istigato nel 1903 la secessione della regione di Panama dalla Colombia – creando dal niente uno Stato che fino ad allora non esisteva – al solo scopo di affittare dalla neocostituita Repubblica centroamericana la zona del canale a tempo indeterminato e a un prezzo irrisorio.

Il canale passò sotto il controllo panamense solo il 31 dicembre 1999, in ragione di un trattato che il presidente democratico Jimmy Carter aveva sottoscritto nel 1977, destando al tempo le proteste di chi, come il futuro inquilino repubblicano della Casa Bianca Ronald Reagan, obiettava che “lo abbiamo costruito noi, ce lo siamo pagato, è nostro e ce lo terremo”.

Una espansione condotta in parte mettendo mano al portafoglio

Del resto, l’odierno assetto territoriale degli Stati Uniti è in larga misura il prodotto della compera di ampie porzioni dell’America settentrionale anziché della conquista militare di aree del continente.

Tralasciando i trattati più o meno fraudolenti con cui i nativi americani furono costretti a cedere, prima ai coloni inglesi e poi al governo federale statunitense, la quasi totalità delle vaste zone dove vivevano le nazioni autoctone, l’espansione continentale degli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento, che permise il progressivo spostamento dei confini del Paese dall’entroterra della costa atlantica fino al Pacifico, fu l’esito dell’acquisto in denaro di territori nordamericani.

A iniziare questa politica fu il presidente Thomas Jefferson. Nel 1803, per 15 milioni di dollari (equivalenti a poco più di 370 milioni di dollari attuali), comprò dalla Francia di Napoleone la Louisiana, una regione molto più grande dell’odierno Stato omonimo, che si estendeva dalla foce del Mississippi al confine con il Canada, coprendo circa 2.140.000 km quadrati.

In questo modo, Jefferson raddoppiò la superficie totale degli Stati Uniti dell’epoca e incamerò prevalentemente terreni fertili per sostenere il suo progetto di sviluppo dell’economia del Paese in senso agrario anziché manifatturiero.

Per non essere da meno di Jefferson, nel 1819, per 5 milioni di dollari (pari a poco meno di 100 milioni di dollari odierni), il presidente James Monroe acquistò dalla Spagna la Florida, che si estendeva in un’area di circa 187.000 km quadrati.

Lo scopo principale era mettere in sicurezza il confine sud-orientale degli Stati Uniti, ponendo fine a una situazione di sostanziale anarchia, dovuta all’incapacità dell’amministrazione spagnola, che aveva permesso di trasformare la Florida in un rifugio per schiavi fuggiti dai loro padroni statunitensi e in una base dalla quale banditi e tribù indigene partivano per compiere scorrerie nelle regioni meridionali dell’Unione.

Perfino nella fase più efferata dell’espansione continentale – la guerra di aggressione combattuta contro il Messico tra il 1846 e il 1848, per raggiungere la costa del Pacifico e impadronirsi dei porti di San Francisco e San Diego, ritenuti indispensabili allo scopo di sviluppare rapporti commerciali con l’Impero cinese – gli Stati Uniti vollero formalmente comprare i quasi 1,4 milioni di km quadrati di territori conquistati sul campo di battaglia (che avrebbero dato vita agli Stati di Arizona, California, Colorado, Nevada, New Mexico e Utah), versando 15 milioni di dollari (grosso modo 530 milioni di dollari di oggi).

Ancora nel 1867 Washington pagò 7,2 milioni di dollari (corrispondenti a circa 157 milioni di dollari odierni) per farsi cedere dall’Impero russo l’Alaska, una regione di poco meno di 1,8 milioni di km quadrati destinata a diventare lo Stato più esteso dell’Unione.

I tentativi statunitensi di annettere il Canada: una storia di fallimenti

Al momento del passaggio dell’Alaska agli Stati Uniti, la ricchezza delle risorse naturali di questo territorio era ancora del tutto sconosciuta. Quasi disabitata e ricoperta da ghiaccio e neve per gran parte dell’anno, la regione fu ribattezzata sarcasticamente “la ghiacciaia di Seward” (dal cognome del segretario di Stato che aveva voluto entrarne in possesso) da un’opinione pubblica statunitense che voleva mettere in rilievo l’apparente inutilità del suo acquisto.

In realtà, Seward aveva un proposito chiaro nel concludere una transazione dispendiosa che sembrava del tutto incomprensibile: racchiudere il Canada tra due porzioni territoriali degli Stati Uniti in maniera da facilitare la sua annessione all’Unione.

In altre parole, impadronirsi dell’Alaska avrebbe dovuto servire a inglobare Canada, realizzando un proposito che gli statunitensi avevano maturato fino dalla loro costituzione in nazione sovrana.

Infatti, per una parte dei cittadini inglesi nordamericani che si erano ribellati contro la madrepatria nel 1775, il Canada avrebbe dovuto seguirli sulla strada dell’indipendenza dall’Inghilterra già allora. Ma i canadesi, in parte cattolici di ascendenza francese, preferirono restare sotto la sovranità di Londra, che ne aveva tutelato la libertà di culto e il rispetto delle tradizioni religiose e civili con il Quebec Act del 1774, anziché unirsi a uno Stato appena sorto, dalla sopravvivenza incerta nonché abitato in prevalenza da protestanti di ceppo anglosassone e alquanto prevenuti nei confronti di quelli che definivano “papisti”, con un linguaggio dispregiativo volto a enfatizzarne la sottomissione alla volontà del Pontefice romano.

D’altro canto, la Gran Bretagna non fu disposta a rinunciare al Canada al momento di riconoscere l’indipendenza delle sue ormai ex colonie con la firma del trattato di Parigi del 1783. Nel corso dei negoziati di pace, infatti, i rappresentanti inglesi rigettarono la proposta, formulata da Benjamin Franklin, uno dei delegati statunitensi, di cedere il Canada come pagamento delle riparazioni di guerra per i danni subiti dagli indipendentisti.

Una nuova opportunità per annettere il Canada si presentò agli Stati Uniti in occasione di una seconda guerra combattuta contro l’Inghilterra tra il 1812 e il 1815. All’epoca l’ex presidente Jefferson ritenne che l’occupazione del Canada sarebbe stata una “una semplice passeggiata”, in considerazione del fatto che il Paese era difeso da appena 4.500 soldati inglesi, che la Gran Bretagna non avrebbe potuto inviare rinforzi perché impegnata in Europa nelle guerre napoleoniche e che i candesi stessi sarebbero stati ansiosi di sbarazzarsi dal giogo della monarchia di Londra e di abbracciare le istituzioni repubblicane statunitensi.

Nondimeno, proprio i canadesi respinsero le truppe che, tra il luglio e l’agosto del 1812, sotto il comando del generale William Hull, intendevano liberarli dalla “tirannia” della Gran Bretagna.

Non andò meglio l’anno successivo alle forze del commodoro Isaac Chauncey e del generale Henry Dearborn. Dopo aver occupato l’allora capitale del Canada York (oggi Toronto), in un eccesso di zelo antimonarchico, incendiarono gli edifici del governo e dell’assemblea legislativa, suscitando un’ondata di sdegno nazionalistico tra i canadesi che contribuì a ricacciare oltreconfine i militari statunitensi.

Un trentennio più tardi il presidente James K. Polk cercò di sfruttare una controversia sul controllo dell’Oregon, il territorio a ridosso del Pacifico diviso al tempo tra il Canada britannico e gli Stati Uniti, per spostare a Nord il confine.

Nel 1845 minacciò una terza guerra contro l’Inghilterra, se Londra non avesse riconosciuto la sovranità di Washington fino al parallelo di 54°40’. Tuttavia, l’anno seguente, Polk dovette rinunciare al Canada meridionale e accontentarsi del consolidamento del confine lungo il 49° parallelo perché, nel frattempo, era scoppiata la guerra contro il Messico e gli Stati Uniti non erano nelle condizioni di combattere due conflitti militari allo stesso tempo.

Alla conclusione della guerra civile americana tra il Nord e il Sud (1861-1865), il governo statunitense accusò la Gran Bretagna di avere violato la sua neutralità nel conflitto perché aveva venduto ai confederati navi che erano state poi impiegate contro la marina dell’Unione.

Washington chiese a Londra un indennizzo di due miliardi di dollari (pari a quali 40,5 miliardi di dollari attuali), aggiungendo che in alternativa si sarebbe accontentata di ricevere in pagamento il Canada.

Anche questa manovra per ottenere il Canada fu vanificata perché una commissione internazionale di arbitrato ridimensionò l’ammontare dell’indennizzo a 15,5 milioni di dollari, cifra che la Gran Bretagna accettò di pagare in contanti.

La leva commerciale come strumento per promuovere l’annessione

Un ultimo tentativo per annettere in Canada fu compiuto dal presidente William Howard Taft. Nel 1911 propose un trattato di reciprocità nei rapporti commerciali che esentava le importazioni canadesi dall’aumento dei dazi doganali stabilito dal Payne-Aldrich Act del 1909.

Secondo Taft, il provvedimento avrebbe potuto aprire la strada all’ingresso del Canada negli Stati Uniti. In una lettera all’ex presidente Theodore Roosevelt, che sarebbe dovuta restare privata ma divenne invece di dominio pubblico, Taft si spinse addirittura ad affermare che il trattato avrebbe trasformato il Canada “in una semplice appendice degli Stati Uniti”.

Oltre a suscitare allarme negli Stati del Mid West, preoccupati della perdita di quote significative del mercato interno per l’importazione di prodotti caseari dal Canada, le parole di Taft ridestarono il nazionalismo canadese, che impedì la ratifica dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti e bloccò tutto quello che ne sarebbe potuto conseguire.

Perché il Canada

Secondo Trump, inglobare il Canada permetterebbe un maggiore controllo delle frontiere per sventare il contrabbando di fentanyl e arginare l’immigrazione irregolare. In realtà, però, il confine statunitense con il Canada è molto meno poroso di quello con il Messico.

Infatti, nell’ultimo anno sono stati sequestrati appena 19,5 chili di fentanyl alla frontiera canadese contro quasi 9,6 tonnellate a quella messicana. Inoltre, sono stati fermati meno di 24.000 immigrati irregolari entrati dal Nord rispetto all’oltre milione e mezzo introdottisi dal Sud.

Come se non fosse bastato, le affermazioni di Trump sono paradossalmente arrivate dopo che il governo di Ottawa aveva già annunciato un incremento degli stanziamenti per l’impiego di elicotteri e droni allo scopo di aumentare il monitoraggio dei propri confini.

Le criticità di Washington nei rapporti con il Canada risultano altre. Nel 2023 gli Stati Uniti hanno registrato un deficit di quasi 68 miliardi di dollari nella bilancia commerciale con il Canada, un disavanzo che, con il suo abituale linguaggio mistificatore, Trump ha chiamato “sussidi” del proprio Paese a beneficio del vicino settentrionale.

Dal Canada provengono oltre i quattro quinti dell’energia elettrica che gli Stati Uniti importano dall’estero e tredici delle 35 categorie di metalli la cui disponibilità Washington ritiene fondamentale per la propria sicurezza nazionale.

Nel 2022 oltre la metà delle esportazioni di minerali canadesi, per un valore di circa 80 miliardi di dollari, si è indirizzata verso gli Stati Uniti. In questo ambito, due settimane fa, il Pentagono ha annunciato l’investimento di 15,8 milioni di dollari per il potenziamento dell’estrazione di tungsteno in una miniera canadese dello Yukon orientale. Il dipartimento della Difesa di Washington aveva anche destinato altri 20 milioni di dollari in agosto per lo sfruttamento del cobalto canadese.

Il castoro e l’aquila

Il contesto delle politiche commerciali potrebbe indurre a tracciare analogie tra le vicende del 1911 e quelle odierne. Il premier liberale canadese Wilfrid Lauriel nel 1911 era in forte crisi di consensi e in settembre perse le elezioni, che segnarono il ritorno dei conservatori al governo dopo quindici anni trascorsi all’opposizione.

Oggi il primo ministro Justin Trudeau, pure lui liberale, in carica da quasi dieci anni, ha subito un crollo della popolarità, contrattasi ulteriormente dopo le recenti dimissioni di Chrystia Freeland dalle cariche di vice premier e titolare del dicastero delle Finanze.

Secondo l’autorevole settimanale britannico The Economist, meno di un quarto dei canadesi sarebbe disposto ad affidare a Trudeau un quarto mandato nelle elezioni che si terranno il prossimo ottobre. Alcuni membri del partito liberale lo hanno addirittura invitato a non ricandidarsi e il New Democratic Party, una formazione socialdemocratica che fa parte della coalizione di governo, ha promesso di togliere il proprio sostegno a Trudeau quando il Parlamento riaprirà alla fine di gennaio.

Le minacce di Trump di portare al 25% i dazi doganali sulle importazioni dal Canada possono ricordare la trattativa sull’applicazione del Payne-Aldrich Act, sebbene lo scopo di The Donald per il momento sia ufficialmente solo quello di costringere il governo di Ottawa a una maggiore efficienza nell’arrestare il traffico di fentanyl e di immigrati irregolari.

La finta gaffe con cui Trump si è riferito a Trudeau definendolo il “governatore” del Canada e l’intento di fare di questo Paese il 51° Stato dell’Unione suonano come una replica delle dichiarazioni di Taft. Il passato, però, attesta anche come i progetti statunitensi di annessione del Canada siano sempre stati vanificati proprio dagli stessi canadesi.

Da tale punto di vista, al di là delle pressioni di natura commerciale, il periodo della seconda amministrazione Trump appare la circostanza storica meno propizia per immaginare un alquanto ipotetico passaggio del Canada sotto la sovranità di Washington che – a prescindere dalla volontà del presidente dell’Unione, il quale non gode di prerogative in questo ambito – avrebbe bisogno dell’assenso non solo dei canadesi ma anche del Congresso degli Stati Uniti, in base a quanto prescritto dal primo comma della terza sezione dell’articolo 4 della Costituzione federale.

Il nazionalismo canadese, infatti, si è da tempo alimentato di progressismo, ambientalismo, arginamento del cambiamento climatico, rispetto del diritto internazionale, rigida regolamentazione del possesso delle armi e protezione dei rifugiati, un complesso di politiche e di valori in aperto contrasto con l’orientamento trumpiano.

Tutto sembra, quindi, indicare che il mite e laborioso castoro (assurto a “simbolo della sovranità canadese” con una legge del 1975) riuscirà ancora una volta a sottrarsi agli artigli della rapace aquila calva statunitense (designata da Joe Biden come “uccello nazionale” proprio alla vigilia di Natale) e che le parole di Trump finiranno col tempo per dimostrarsi un’altra delle sue numerose provocazioni velleitarie.

. . .

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

Commenta