A Copenhagen il ciclismo assegna in quest’ultima domenica di settembre la maglia iridata che l’anno scorso a Melbourne è stata indossata dal norvegese Hushvod, una maglia che nella storia della competizione premiò anche illustri sconosciuti deludendo supercampioni del calibro di Bartali, Anquetil o Indurain. Campionato, quello danese, che ha tutta l’aria di risolversi con una volatona per velocisti (Freire, Cavendish e Farrar su tutti), a meno che un passista capace di formidabili progressioni finali, tipo Gilbert o lo stesso Hushvod, non sparigli di forza l’inerzia di una corsa che ha nei cavalcavia le uniche difficoltà. Non c’è un vincitore di Giro e Tour al via. Non ci sono in particolare Alberto Contador e Cadel Evans. Anche per colpa di un calendario che la colloca ormai a fine stagione, quando i muscoli sono stanchi e usurati, quella che era la corsa più prestigiosa dell’anno da tempo sta perdendo di fascino se non di importanza. Il percorso scelto dagli organizzatori, piatto come un tavolo di biliardo, non aiuta a rilanciarla. Altri tempi quelli in cui la corsa iridata era, con il Tour, l’evento sportivo dell’estate che riempiva giornali, radio e tv. L’hanno vinta e onorata quasi tutti i fuoriclasse che hanno fatto la storia del ciclismo, da Coppi a Louison Bobet, da Rik Van Looy a Merckx, da Hinault a Armstrong. Anche Jacques Anquetil, il più forte cronoman di tutti i tempi, andò a un passo dal conquistarla nel 1966. Arrivò solo secondo battuto dal tedesco Altig. Fu una delle poche delusioni in una carriera che colloca Anquetil tra i più grandi corridori mai apparsi sulle strade del mondo, vincitore di cinque Giri di Francia e due Giri d’Italia, il primo a trionfare nello stesso anno in Tour, Giro e Vuelta. Un fuoriclasse del circo delle due ruote che ebbe fretta di vincere tutto come se presagisse che la vita gli avrebbe concesso tutto ma non il tempo di invecchiare. Morì ad appena 53 anni ucciso dal cancro.
Ribelle nella vita e nelle corse, perfetto nello stile e nella pedalata, formidabile passista tanto da battere il record dell’ora di Coppi, percorrendo nel 1956 al Vigorelli 46 chilometri e 151 metri: i francesi non l’amarono mai fino in fondo negli anni d’oro in cui era il padrone assoluto del Tour e strapazzava con irrisoria facilità Raymond Poulidor, l’eterno secondo ma primo nel cuore dei tifosi d’Oltralpe. All’improvviso però tutti furono conquistati da Jacquot, quando ormai più che trentenne fu capace di un’impresa unica che in Francia chiamarono “le truc de legende”, un’impresa che sa di leggendario in un week-end di fine maggio 1965: vincere il criterium del Delfinato finito il sabato, dormire un’ora sola di sonno per presentarsi puntuale il giorno dopo, domenica 30, alla partenza della Bordeaux-Parigi e trionfare in quella che era la più estenuante maratona ciclistica davanti a “colleghi” della forza di Stablinski e Simpson. Lui stesso riconobbe che sicuramente ci sarebbero stati nel futuro corridori capaci di vincere cinque o più Tour de France, ma nessuno sarebbe mai riuscito a ripetere quella “fantastica cavalcata”: 1555 km in 7 tappe del Delfinato con l’aggiunta di altri 567 km della Bordeaux-Parigi percorsi in oltre 15 ore. Ed è stato un buon profeta.
Non ebbe mai timore a esporsi sul doping. In un’intervista a “L’Equipe” disse: “Bisogna essere degli imbecilli o degli ipocriti per credere che un ciclista professionista che corre 235 giorni all’anno possa farcela senza stimolanti”. Tanto sicuro e spavaldo da saper rinunciare all’omologazione del suo secondo record dell’ora (1967) per essersi rifiutato di sottoporsi ai primi controlli antidoping, Per lui erano un’autentica violazione della vita privata. Dalla sua parte si schierò addirittura anche il generale De Gaulle. Criticato per averlo insignito nel 1966 della Legion d’onore nonostante le frasi sul doping, De Gaulle ebbe a replicare: “Quale doping? So solo che Anquetil ha onorato la Francia, facendo risuonare la Marsigliese nel mondo”. I suoi duelli con Poulidor divisero la Francia negli anni Sessanta come la rivalità tra Coppi e Bartali divise l’Italia nei due decenni precedenti. Ma Anquetil nella Francia laica, al contrario di Coppi nell’Italia bigotta degli anni Cinqunata, non fu mai demonizzato per la propria vita privata, turbolenta e sconvolgente, i cui dettagli vennero completamente alla luce solo dopo la morte del campione. Nel 2004, esattamente a 17 anni dalla sua scomparsa, uscì un libro-choc firmato dalla figlia Sophie, che tolse ogni velo dalla vita privata del campione e del suo harem. «Sono stata una bambina con due madri… una di loro era figlia dell’ altra, e per 15 anni le mie due mamme hanno vissuto sotto lo stesso tetto», scriveva Sophie. Una storia familiare incredibile con il «sultano» Jacques al centro. Una vicenda degna delle più scabrose trame di Beautiful, cominciata nel 1958 quando Anquetil sposò Janine Lepetit (ex moglie del suo medico), che aveva già due figli, Alain e Annie. Nel 1969, dopo il ritiro dalle corse, Jacques voleva un figlio ma Janine non era in grado di darglielo: così tra moglie e marito ci fu un accordo segreto, Annie (figlia di Janine) acconsentì a diventare la «favorita» di Jacques e nacque Sophie. Anni dopo un altro intreccio, quando Jacques volle come amante Dominique (moglie dell’ altro figlio di Janine) ed ebbe da lei Christopher. Un tourbillon sentimentale, vissuto per anni nel lusso e nel silenzio del suo castello nella campagna francese, che fu troncato solo dall’apparire di una malattia senza scampo, forse originata dalle tante manipolazioni cui Anquetil sottopose il suo corpo di atleta. Ma anche nei giorni dolorosi e cupi che precedettero la sua morte, non volle mai venir meno al suo stile: e a Poulidor, il rivale di sempre, che era andato a trovarlo in ospedale, Anquetil disse con l’ultimo filo di voce rimasto: “Vedi Raymond, anche questa volta ti tocca arrivare secondo”.
Jacques morì il 18 novembre 1987. Era nato l’8 gennaio 1934 nei pressi di Rouen. L’ultimo volta che apparve in pubblico, già con i segni della malattia, fu qualche mese prima, a luglio, per commentare alla tv il trionfale Tour di Stephen Roche, l’irlandese che in quella stagione fu il primo a vincere insieme Giro, Tour e Mondiale. Un primato che anche quest’anno è assolutamente al riparo da ogni attacco, qualunque sia il vincitore di oggi nella corsa iridata di Copenhagen.
Roche non fu il primo. Già Monsieur Merckx aveva provveduto.