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Cambogia: o il figlio o la fabbrica, questo è il dilemma

La produzione industriale della Cambogia si fonda principalmente sul settore tessile e su quello delle confezioni, che forniscono il 90% delle esportazioni. Settore tessile e dell’abbigliamento, a loro volta, si fondano principalmente sul lavoro femminile, le cui condizioni in questi giorni sono oggetto di pesanti denunce da parte di sindacati e associazioni per i diritti dei lavoratori. Nell’occhio del ciclone le manovre che la gran parte delle aziende del settore mettono in atto per evitare di pagare alle lavoratrici il congedo per la maternità. Le donne, infatti, molto più degli uomini, sono destinatarie di contratti a breve termine, un tipo di contratto che fa maturare il diritto al rimborso della maternità dopo un anno di servizio presso la stessa impresa. In pratica, però, dietro minaccia di non essere riassunte, molte lavoratrici incinte sono costrette dall’azienda a interrompere il contratto, senza usufruire del pagamento della maternità, per poi, nella gran parte dei casi, non essere riassunte comunque. Sono in tante così a trovarsi di fronte al dilemma: o avere un figlio e farsi una famiglia, o mantenere il lavoro. “Stiamo facendo di tutto” dice Ken Chenglang, del Sindacato nazionale indipendente della federazione tessile di Cambogia, “per far cessare questo stato di cose”. “E soprattutto” aggiunge “perché le aziende rinuncino a far uso di questo genere di contratti, che non garantiscono i diritti delle donne, pure sanciti sia dalla Costituzione sia dalla legislazione sul lavoro”. La battaglia però appare ardua, dal momento che la quasi totalità delle aziende del settore (95%) è coinvolta nella discriminazione di genere. Secondo Dave Welsh, direttore di un Centro di solidarietà, l’unico modo per ottenere qualche risultato è quello di preparare una “class-action” indirizzata alle imprese, suddivise per gruppi e marchi, e provare per questa via a far loro cambiar registro.

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