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Cambiamento climatico: al Sud l’agricoltura diventa tropicale e al Nord sale quella mediterranea. Ma non c’è da rallegrarsene

Foto di Hans da Pixabay

Ulivi che si spingono al Nord e producono ottimo olio ai piedi delle Alpi al punto che Sondrio, oltre il 46esimo parallelo, sembra essere diventata l’ultima frontiera nord dell’olio d’oliva italiano: negli ultimi dieci anni la coltivazione dell’ulivo sui costoni più soleggiati della montagna valtellinese è passata da zero a circa diecimila piante, su quasi 30 mila metri quadrati di terreno.

E che dire della produzione di pomodoro per le conserve che oramai per il 50% proviene dalle colture della pianura padana? Così come accade per il grano duro della pasta? E non è finita, perché da qualche tempo a questa parte per contrastare l’aumento zuccherino delle uve – il vino italiano è aumentato di un grado negli ultimi 30 anni – i vigneti vengono spinti sempre più in alto sugli altipiani e sulle mezze montagne, come nel comune di Morgex e di La Salle, in provincia di Aosta, dove dai vitigni più alti d’Europa si producono le uve per il Blanc de Morgex et de La Salle Dop.

E l’effetto del cambiamento climatico fotografato in un rapporto della Coldiretti, cambiamento che è iniziato da alcuni decenni e, stando alle previsioni, sembra proprio che continuerà a lungo sconvolgendo le abitudini agricole del nostro paese e non solo.

Gli ulivi si coltivano ai piedi delle Alpi e metà della produzione di pomodoro per le conserve viene dalla Padana

L’analisi della Coldiretti in riferimento ai dati del rapporto Copernicus evidenzia come il 2022 sia stato il secondo anno più caldo mai registrato in Europa e addirittura il più rovente di sempre in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Irlanda. In Italia, in particolare, la temperatura media è stata superiore di 1,15 gradi, un dato preoccupante che si è accompagnato ad una diminuzione delle precipitazioni del 30 per cento. Preoccupa inoltre il fatto che la tendenza al surriscaldamento nel nostro paese ha subito una brusca impennata nell’ultimo decennio nell’ordine dopo il 2022 il 2018, il 2015, il 2014, il 2019 e il 2020.

Per converso se il nord si sta mediterranizzando, d’altra parte, da tempo nel sud dello stivale si proiettano sempre più scenari agricoli tipici dell’Africa dove frutti tropicali come l’avocado i mango le banane, le papaya e le maracuje si sono adattati perfettamente e vengono prodotti non solo per i mercati nazionali ma vengono addirittura esportati all’estero.

Le colture tropicali in Puglia, Sicilia e Calabria, sfiorano i 1200 ettari

Nel giro di cinque anni le colture tropicali in Italia sono praticamente triplicate arrivando a sfiorare i 1200 ettari fra Puglia, Sicilia e Calabria. A far la parte del leone è proprio la Sicilia con coltivazioni ad avocado e mango di diverse varietà nelle campagne tra Messina, l’Etna e Acireale, ma anche a frutto della passione, zapote nero (simile al cachi, di origine messicana), sapodilla (dal quale si ottiene anche lattice), litchi, il piccolo frutto cinese che ricorda l’uva moscato. Non è da meno la Puglia dove i tropicali sono ormai una realtà consolidata, spinta dagli effetti della siccità con una impennata delle coltivazioni di avocado, mango e bacche di Goji insieme a tante altre produzioni esotiche come le bacche di aronia, le banane e il lime. E tropicali italiani sono largamente diffusi anche in Calabria dove alle coltivazioni di mango, avocado e frutto della passione si aggiungono melanzana thay (variante thailandese della nostra melanzana), macadamia (frutta secca a metà tra mandorla e nocciola) e addirittura la canna da zucchero, mentre l’annona, altro frutto tipico dei paesi del Sudamerica è ormai diffuso lungo le coste tanto da essere usato anche per produrre marmellata.

In Sassonia si cominciano a produrre Pesce e Albicocche e in Danimarca e Svezia il vino

Il discorso non riguarda ovviamente solo l’Italia ma anche il nord Europa. Regioni che fino a pochi anni fa erano troppo fredde per sostenere certi raccolti potranno convertirsi all’agricoltura. In Sassonia, dove la temperatura media si è alzata di circa 2 °C negli ultimi decenni, hanno cominciato a comparire i primi frutteti con peschi e albicocchi; mentre in Inghilterra, Danimarca e Svezia c’è addirittura chi produce vino. Il problema è che secondo l’IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU, le perdite per l’agricoltura dell’Europa meridionale non saranno compensate dai guadagni di quella settentrionale. Le soluzioni, o quantomeno le misure di mitigazione, sono quindi da cercare altrove.

Quello che si profila all’orizzonte assume dunque aspetti preoccupanti dal punto di vista civile ed economico.

“L’agricoltura è l’attività economica che più di tutte le altre vive quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici ma è anche il settore più impegnato per contrastarli” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “i cambiamenti climatici impongono una nuova sfida per le imprese agricole che devono interpretare le novità segnalate dalla meteorologia e gli effetti sui cicli delle colture, sulla gestione delle acque e sulla sicurezza del territorio”.

Secondo le previsioni le coltivazioni di grano, mais e barbabietola da zucchero si ridurranno del 50% nell’Europa meridionale

Secondo il rapporto IPCC il caldo eccessivo e la carenza idrica rallenteranno o, addirittura, bloccheranno la crescita delle piante. Le ondate di calore che si faranno sempre più intense rischiano di rovinare intere annate, e anche i modelli più generosi prevedono che nei prossimi decenni l’Europa meridionale andrà incontro a un aumento vertiginoso del numero di giorni in un anno con insufficienti risorse idriche. Con una crescita di 2 °C della temperatura, il 54% della popolazione dell’Europa meridionale conoscerà la siccità, anche se non sempre in forme estreme.

Senza contare che con l’aumento delle temperature bisognerà abbandonare certi raccolti: le proiezioni dicono che la coltivazione di grano, mais e barbabietola da zucchero si ridurrà del 50% nell’Europa meridionale. I raccolti saranno quindi sempre più costosi e difficili da mantenere, con un conseguente calo della quantità e qualità dei prodotti che arrivano sul mercato e un contemporaneo aumento del prezzo.

Stando a un rapporto del 2019 dell’EEA, poi, questo provocherà anche un crollo del valore della terra, che potrebbe diminuire dell’80% entro il 2100, causando un abbandono in massa dei campi e di un’attività ormai non più redditizia. Vale per tutti quanto accaduto nel 2018, a causa di una combinazione di ondate di gelo invernali e ondate di calore e siccità estive: l‘Italia ha perso il 57% della sua produzione totale di olive; un anno dopo, la Spagna ne ha perso il 44%. Dati su cui riflettere.

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