“Bisogna definire un piano di transizione a un sistema differente di welfare, come fosse un piano industriale, perché i servizi alla persona sono un importantissimo driver di crescita: favoriscono l’occupazione, stimolano la domanda interna e sono un fattore di stabilizzazione sociale”. Questa la posizione di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, intervenuto oggi al convegno “White economy: innovazione e crescita”, organizzato a Roma da Unipol.
“I cittadini richiedono che le prestazioni di welfare siano gratuite – prosegue Calenda – ma questo non significa che debbano essere erogate necessariamente dal Servizio sanitario nazionale. Possono essere coinvolti anche i privati, ad esempio delegando alcune funzioni al welfare aziendale, dove possibile”. Un piano simile richiederebbe un aggravio di spesa nell’immediato che difficilmente otterrebbe il via libera della Commissione europea, ma secondo il ministro varrebbe la pena di operare “anche in deficit” per ottenere in prospettiva un sistema più efficiente. “Bisogna realizzare, come abbiamo fatto con Industria 4.0, un piano pluriennale che guardi ai prossimi 3-4 anni”, anche “in coordinamento con le Regioni”.
Dagli atti del convegno emerge che oggi la “white economy”, cioè la filiera delle attività pubbliche e private per la previdenza e la tutela della salute, vale in Italia 290 miliardi di euro, pari al 9,4% del Pil, e dà lavoro a 3,8 milioni di addetti (2,8 diretti e uno nell’indotto), circa il 16% della forza lavoro totale. Un settore quindi già sviluppato, ma destinato a crescere ancora, perché la domanda di assistenza aumenterà con il progressivo invecchiamento della popolazione.
Come ricorda Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, la speranza di vita di una donna italiana nata nel 2016 è di 84,7 anni, “un record mondiale che condividiamo con il Giappone”. Ma sarà possibile garantire a tutti un tenore di vita adeguato anche a quell’età? Al momento, fra gli strumenti a disposizione non c’è equilibrio: il 65,5% degli anziani non autosufficienti riceve un aiuto dai familiari non conviventi, mentre il 23% si rivolge ai servizi pubblici e meno del 20% ai privati (dati Istat).
Su questo fronte, il problema più grave riguarda le pensioni. Dopo le riforme Dini (1995) e Fornero (2011), il sistema previdenziale italiano è diventato uno dei più sostenibili dal punto di vista della finanza pubblica, ma i costi sociali sono pesanti. “Il tasso di sostituzione atteso per i giovani lavoratori di oggi, ovvero il rapporto fra l’ultimo salario percepito e la pensione a cui avranno diritto – ricorda Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Ivass – è di circa il 50%, non più l’80% come in passato. Questo significa che la previdenza pubblica non basta più, serve un’integrazione con quella privata. E purtroppo fra i giovani c’è ancora scarsa consapevolezza di questa necessità”.
Inoltre, secondo Carlo Cimbri, amministratore delegato del gruppo Unipol, c’è anche un problema di crescita: “Se un giovane lavora con un contratto precario o comunque ha un salario basso, come fa a sostenere i costi della previdenza complementare? Bisogna far crescere i redditi, perché senza crescita non c’è niente, nemmeno il welfare”. Inoltre, il numero uno di Unipol ritiene che, sui servizi alla persona, “lo Stato debba organizzare una programmazione di lungo periodo, razionalizzando il sistema e coordinandolo con le politiche fiscali e sociali. È questo che è mancato in Italia negli ultimi 20-30 anni”. Un piano industriale, appunto.