E adesso, che si fa? La domanda sta tormentando da giorni tutti gli appassionati di calcio italiani (in particolare i tifosi di Inter e Juventus) ma soprattutto il presidente della FIGC Giancarlo Abete. Sarà lui infatti, assieme ai 24 consiglieri federali (i presidenti del settore giovanile scolastico Gianni Rivera e del settore tecnico Roberto Baggio non hanno diritto di voto) a dover decidere cosa fare il prossimo 18 luglio. Quel lunedì romano, che immaginiamo torrido e afoso come non mai, sarà un giorno spartiacque nella storia del calcio italiano, qualsiasi cosa succeda. Perché, se è vero che il Consiglio Federale potrebbe anche riservarsi di non decidere, è altrettanto vero che questo porterebbe a clamorose prese di posizione da parte della Juventus.
Andrea Agnelli, che il 10 maggio 2010 presentò un esposto per la revoca dello scudetto 2006, è stato molto chiaro: “Ho solo una remora – ha dichiarato mercoledì a margine della presentazione delle nuove maglie bianconere – temo si decida di non decidere. E agire così, in uno dei momenti più bassi nella storia del calcio italiano, sarebbe deleterio per la credibilità dell’intero sistema. Ma io voglio rispetto: possediamo mezzi, capacità e conoscenze per muoverci anche fuori dall’ambito della giustizia sportiva”. In parole povere, se il 18 luglio non si arrivasse ad alcuna decisione, o peggio, tutto finisse a tarallucci e vino, la Juventus si rivolgerebbe alla giustizia ordinaria, scatenando, con ogni probabilità, un vero e proprio pandemonio. A cosa potrebbe portare una mossa come questa? Sospensione dei campionati? Nuovi processi? Di sicuro nulla di positivo per il calcio italiano, che, questa volta, non avrebbe lo scudo dei Mondiali che lo salvò nel 2006. Ricordate il clima di giustizialismo di quell’estate? Qualcuno proponeva addirittura di fermare il calcio a tempo indeterminato.
Poi Marcello Lippi (quello che secondo alcuni politici non sarebbe nemmeno dovuto partire per la Germania, visto il coinvolgimento del figlio Davide, poi assolto, nell’inchiesta relativa alla GEA World) regalò all’Italia intera il tetto del mondo dopo 24 anni d’attesa. Lì fu chiaro a tutti che il processo sportivo sarebbe stato rapido e sommario: guai a togliere al popolo il giocattolo preferito (il calcio), l’arma di distrazione di massa più efficace, almeno nello Stivale. Le richieste che Stefano Palazzi presentò il 4 luglio 2006 furono durissime: per la Juventus esclusione dal campionato di competenza (serie A) e assegnazione ad una categoria inferiore alla Serie B (quindi anche la C2) con 6 punti di penalizzazione, revoca dello Scudetto 2004-2005, non assegnazione dello Scudetto 2005-2006.
Per Lazio e Fiorentina retrocessione in Serie B con 15 punti di penalità, per il Milan retrocessione nella stessa serie con 3 punti di penalizzazione. L’8 agosto poi, in seguito ad un secondo filone d’indagini, Palazzi chiese la retrocessione in B con 15 punti di penalità anche per la Reggina e la retrocessione in serie C1 (la Lega pro non era ancora nata) per l’Arezzo, con 3 punti di pena. Le sentenze però furono di tenore ben più leggero: prendendo in considerazione solo quelle definitive emesse il 26 ottobre 2006 dall’arbitrato del CONI, l’unica a subire una retrocessione fu la Juventus (con 9 punti di penalizzazione contro i 30 iniziali), che si vide inoltre revocare entrambi gli scudetti del 2004 – 05 e del 2005 – 06. Lazio e Fiorentina, che in primo grado erano state retrocesse in B rispettivamente con 7 e 12 punti di penalità, videro invece confermata la Serie A (già ottenuta nell’Appello del 25 luglio 2006) con 3 (!) e 15 punti di penalizzazione. 11 invece i punti da scontare per la Reggina (ovviamente in Serie A) e 6 per l’Arezzo (in B). Il Milan se la cavò con 8 punti da scontare nella massima serie e potè partecipare alla Champions League (che poi vinse). Svariate poi le squalifiche per i dirigenti coinvolti, da Luciano Moggi ad Antonio Giraudo (per entrambi 5 anni più proposta di radiazione, ottenuta il 15 giugno scorso), dai fratelli Andrea e Diego Della Valle (rispettivamente 1 anno e 1 mese e 8 mesi di squalifica), ai milanisti Leonardo Meani e Adriano Galliani (2 anni e 3 mesi e 5 mesi di squalifica) dal laziale Claudio Lotito (4 mesi) al reggino Pasquale Foti (1 anno e 1 mese). Pagarono un conto salato anche il vice presidente federale Innocenzo Mazzini (5 anni con proposta di radiazione, anche qui ottenuta), il designatore arbitrale dell’epoca Pierluigi Pairetto (2 anni e 6 mesi di squalifica), l’arbitro Massimo De Santis (4 anni di squalifica), mentre se la cavarono l’altro designatore AIA Paolo Bergamo (non giudicabile perché dimessosi l’anno precedente) e il presidente FIGC Franco Carraro (assolto).
Insomma, un terremoto vero e proprio, anche se la scossa più forte colpì soprattutto la Juventus e i suoi 2 dirigenti di riferimento. In tutto questo vortice di nomi e numeri (necessari a ricordare bene una vicenda sulla quale oggi, purtroppo, in molti scrivono inesattezze) non c’è nemmeno una riga sull’Inter. Già, perché nell’estate 2006 i nerazzurri non furono minimamente scalfiti da Calciopoli, anzi, indubbiamente ne beneficiarono. Il 26 luglio, 24 ore dopo le sentenze d’appello, Guido Rossi (allora commissario straordinario della FIGC) e i cosiddetti “3 saggi” (Gerhard Aigner, ex segretario generale UEFA, Massimo Coccia, avvocato ed esperto di diritto sportivo e Roberto Pardolesi, Ordinario di diritto privato comparato) presero una decisione destinata a sconvolgere gli equilibri del nostro calcio. Lo scudetto 2005 – 06 (stagione che, è bene ricordarlo, non è intaccata da nessuna intercettazione), ancora vacante, fu assegnato all’Inter. Nel comunicato diramato allora si legge che “Il Commissario straordinario ha ritenuto di attenersi alle conclusioni del parere e che non ricorrono motivi per l’adozione di provvedimenti di non assegnazione del titolo di Campione d’Italia per il campionato 2005-2006 alla squadra prima classificata all’esito dei giudizi disciplinari”.
Dunque, squalificate Juventus e Milan (sul campo arrivate prima e seconda rispettivamente con 91 e 88 punti), il titolo venne dato all’Inter (terza classificata con 76 punti), al momento priva di qualsiasi macchia. Le polemiche non sono mai mancate su uno scudetto che, fin dall’inizio, fu definito di “cartone” da tutti gli anti – interisti d’Italia. Viceversa, Massimo Moratti lo ha sempre ritenuto il fiore all’occhiello della sua gestione, il risarcimento di tanti anni di soprusi arbitrali. Ma il vento è girato nell’aprile dello scorso anno, quando la difesa di Luciano Moggi ha presentato delle intercettazioni inedite riguardanti l’Inter, il suo attuale presidente Massimo Moratti e l’allora presidente Giacinto Facchetti, con Paolo Bergamo. Il resto è storia recente, con la relazione di Stefano Palazzi di lunedì 4 luglio. Il procuratore federale ha scritto, nelle 24 pagine riguardanti l’Inter, che la società nerazzurra, qualora i reati non fossero caduti in prescrizione, avrebbe una responsabilità “diretta ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società Internazionale, mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità e indipendenza in violazione del pre vigente articolo 6 del codice di giustizia in vigore all’epoca e oggi sostituito dall’articolo 9″. Per l’Inter, secondo Palazzi, “responsabilità diretta e presunta”, per il presidente Moratti, invece, il rilievo mosso è la violazione dell’articolo 1. Accuse gravissime, che al di là della prescrizione (che rende impossibile il coinvolgimento dei nerazzurri in Calciopoli) macchiano gravemente l’immagine immacolata (ricordate lo smoking bianco di Materazzi?) fin qui sventolata ai quattro venti dai campioni del mondo in carica. Al di là degli aspetti giuridici, qui si pone un grosso problema etico, che rischia di distruggere quel poco di credibilità che resta nel nostro calcio.
Come giustificare ancora, alla luce delle intercettazioni di Facchetti, l’assegnazione dello scudetto 2006 all’Inter? Toglierlo però comporterebbe durissime prese di posizione da parte di Massimo Moratti, che potrebbe (al pari di Agnelli) rivolgersi alla giustizia ordinaria per danni. Ecco perché il 18 luglio prossimo, qualunque decisione i 25 componenti del consiglio prenderanno (anche la non decisione) rischia seriamente di far saltare il banco. Ci sono 5 possibili scenari, tutti con le loro controindicazioni. Il primo vedrebbe la conferma dello scudetto all’Inter, cosa che farebbe arrabbiare parecchio Andrea Agnelli, il secondo darebbe ancora il titolo ai nerazzurri, ma con censura. Un modo carino per lavarsene le mani. Il terzo, indubbiamente quello che farebbe più rumore, porterebbe alla revoca del tricolore, scatenando un putiferio senza precedenti. Gli scenari 4 e 5 invece sarebbero i più graditi dal Consiglio (ma non dal suo presidente Abete) perché sbolognerebbero a qualcun altro la patata bollente: il non luogo a procedere per incompetenza, con conseguente trasferimento della decisione ad un’altra sede, o, peggio ancora, il rinvio della decisione, farebbero respirare i vertici federali, ma scatenerebbero la rabbia dei tifosi di tutt’Italia. Degli juventini innanzitutto, in attesa di una risposta da ben 12 mesi (!), ma anche degli interisti, che non vedrebbero riconosciuto quello che, secondo loro, è un diritto acquisito nel tempo. I “neutrali” invece (ovvero tutti i tifosi delle altre squadre) sgranerebbero gli occhi e si chiederebbero a gran voce: ma, con queste premesse, che razza di campionato sarà il prossimo?
Il caos dunque è totale, anche perché norme precise in questo senso non ce ne sono, e il rischio quanto mai concreto, è che dei buoni avvocati possano trascinare questa storiaccia in eterno. Meglio dunque sarebbe una decisione rapida e precisa, anche se scomoda, piuttosto che l’ennesima marcia indietro. A voi consiglieri federali l’ardua sentenza, sperando, indipendentemente dalla fede calcistica, che non si ripetano i vergognosi pasticci del 2006.