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Caffé: non è italiano il migliore al mondo

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Appassionati, estimatori, fanatici, sostenitori, dipendenti, depositari dei suoi segreti e dei suoi sapori, suprematisti italiani e napoletani della bevanda nazionale più famosa al mondo, il caffè, ipercelebrato in letteratura (Pietro Verri docet), cinema (da Pulp Fiction a Notorius a Divorzio all’italiana), musica (da De André a Pino Daniele a Bob Dylan) e teatro (da Goldoni a Eduardo De Filippo), tenetevi alla sedia: il caffè italiano, orgoglio nazionale tricolore, non è il più buono del mondo. Se ne bevono di migliori in Australia, in Giappone, spesso addirittura negli Stati Uniti e nella vicina Francia. La solenne bocciatura viene da due giornalisti italiani, Andrea Cuomo e Anna Muzio, che in un libro Mondo Caffè (Cairo Editore, collana I Libri del Golosario, 320 pagine, 18 euro), raccontano, come recita il sottotitolo, “storia consumo ed evoluzione di un’invenzione meravigliosa”, sfatando molti luoghi comuni su una bevanda che fece esclamare a Giuseppe Verdi: “Il caffè è il balsamo del cuore e dello spirito” e al quale Eduardo De Filippo attribuì poteri miracolistici: ”Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro”.

Il fatto è che, prodotto in oltre cinquanta Paesi della fascia tropicale – ne esistono 125 specie anche se le più diffuse per il valore commerciale sono solo due: la Coffea Arabica e la Coffea Canephora o Robusta – consumato ovunque nel mondo, senza distinzioni geografiche, economiche, sociali e religiose il caffè in Italia non raggiunge neanche primati di consumo. Anzi, le statistiche ci dicono che i Paesi che bevono più caffè sono la Finlandia, la Norvegia e i Paesi Bassi. E l’Italia? E’ solo al diciottesimo posto, anche se forniamo al resto del mondo la maggior parte delle macchine per la produzione di espresso, la tradizione della tazzina e anche il vocabolario specializzato: dovunque si dice espresso, cappuccino, ristretto, macchiato, latte e barista. Già, la parola che designa chi volteggia attorno alla macchina per prepararci il nostro caffè e che se da noi designa spesso uno stanco sforna tazzine con cui parlare brevemente di calcio e di politica – fanno osservare Cuomo e la Muzio – altrove è associata a un guru del chicco, che conosce e studia la materia prima e ne diventa un vero ambasciatore.

E qui siamo al punto. L’Italia è uno dei Paesi dove meno si sa quello che finisce dentro la tazza. Colpa del pensiero unico dell’espresso, secondo il quale l’unico modo di degustare il caffè è quello del pugno nello stomaco sferrato da quei sette millilitri di liquido frutto dell’estrazione estrema della polvere del caffè garantita dalla combinazione di pressione a nove atmosfera e temperatura elevatissima. Una sorta di “medicina” che ci consente di affrontare la giornata e il capoufficio con maggiore determinazione e che ci spinge a vedere il caffè quasi come fosse una medicina, perdonandogli anche aromi troppo amari, bruciati, tostati. In questo modo abbiamo perso di vista l’importanza della materia prima, della provenienza, della qualità, della distinzione tra Arabica e Robusta. Tutti fattori che rendono la degustazione del caffè un momento di godimento. Anche perché pochi sanno che il caffè ha il doppio dei profili aromatici del vino, e quindi varrebbe la pena dedicargli un po’ più di attenzione quando lo beviamo.

Secondo gli autori del libro gli italiani sarebbero ammalati di “tazzismo”, quella forma di discriminazione che la gran parte di noi applica a chi non beve l’espresso nella tazzina ma preferisce i caffè filtro in tazza grande, che da noi sono ancora visti con un misto di disprezzo e commiserazione e liquidati genericamente come “americani”. Una manifestazione di sovranismo liquido in cui cadono spesso anche gourmet e persone gastronomicamente educate e curiose.

Ma certe certezze “culturali” si scontrano con quanto avviene all’estero. Quanti sanno ad esempio che fatto che l’Australia è diventata negli ultimi decenni una terra di coffee addicted, che consumano caffè in tutti i modi e a tutte le ore e soprattutto danno grande importanza a provenienza, tipologia, torrefazione ed estrazione; informazioni, queste, delle quali i consumatori italiani sono spesso sorprendentemente ignari”. Alzi la mano chi ordinando una tazzina di caffè in un bar abbia mai affrontato il barista chiedendogli solo la metà di queste informazioni (differenze tra i chicchi delle diverse specie, gli stili e le caratteristiche delle tostature, il corretto metodo di conservazione, le origini, l’impatto del terroir) prima di portare la tazzina alla bocca!

Ma il libro Mondo Caffè è anche tanto altro: fornisce dati, nozioni botaniche, spiega i vari metodi di estrazione e degustazione, anche quelli molto lontani dalla nostra tradizione, smentisce i luoghi comuni secondo il quali il caffè farebbe male alla salute, fornisce una guida ai migliori indirizzi in cui degustare i caffè all’italiana e gli specialty coffee, in Italia e nel resto del mondo. E racconta anche lo strano ma proficuo rapporto tra il caffè e la gastronomia dimostrando – grazie a una trentina di ricette di altrettanti grandi chef che lavorano in Italia – da Heinz Beck a Niko Romito, da Andrea Berton a Eugenio Boer, da Pino Cuttaia a Davide Oldani, da Cristina Bowerman a Moreno Cedroni – che il caffè non è solo l’ingrediente del tiramisù ma anzi, grazie alle sue caratteristiche di acidità, amarezza ed eleganza può essere trattato come una grande spezia in grado di nobilitare qualsiasi piatto, dall’antipasto al secondo. Ci sono anche alcuni cocktail proposti da alcuni dei più bravi giovani bartender italiani.

E poi il libro Mondo Caffè ha la prefazione del grande scrittore e filosofo Luciano De Crescenzo, scomparso di recente; une delle sue ultime petite, una piccola tazzina zuccherata per ricordarlo con dolcezza. E possiamo affidarci, per concludere alle sue parole: “Il caffè non è una semplice bevanda, nossignore, è qualcosa di più”. Forse lo avevamo sottovalutato.

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