Peter Singer, 73 anni, discendente di una famiglia ebrea di Vienna, insegna bioetica a Princeton ed è il pensatore che ha gettato le basi teoriche dell’antispecismo e ha affrontato tutti i temi contemporanei dell’etica intesa come etica pratica, cioè etica applicata ai nostri comportamenti quotidiani. Proprio il libro, Ethics in the Real World: 82 Brief Essays on Things That Matter, uscito nel 2016 con la Princeton University Press, è una sorta di summa di questo secondo fronte della ricerca di Singer, l’etica applicata appunto.
Il libro è composto da 82 saggi brevi, 2/3 pagine, che sintetizzano le sue riflessioni su una gamma vastissima di temi etici di grande attualità nel dibattito pubblico. In queste riflessioni c’è il nostro futuro, c’è come saremo e come ci comporteremo. Leggerlo equivale a mettere lo sguardo nel telescopio e guardare avanti.
Uno degli argomenti a cui Singer dedica un gruppo sostanzioso di saggi brevi è la questione animale, di cui si è occupato per tutta la sua carriera di studioso di temi etici e di attivista politico. Si tratta di saggi molto misurati. Saggi che sono più argomentativi e discorsivi che volti a combattere le tesi contrarie in modo assertivo o declaratorio. Due di questi sono dedicati alla pesca, uno in particolare sulla caccia alle balene è di particolare attualità visto la decisione del governo giapponese di riprenderne la caccia.
Singer interviene su una questione molto delicata e anche sottotraccia nel dibattito sulla questione. Riguarda le culture che inglobano nella loro identità queste attività. Allora diventa un tema etico del rapporto tra le culture se bandire un certo tratto identitario di una cultura, non condivisa dalle altre, possa significare un’offesa a quella cultura e una discriminazione verso una comunità che lo pratica da secoli e l’ha assimilato profondamente nella cultura nazionale e nell’immaginario collettivo.
La ripresa della caccia alle balene
Il Giappone, dopo essersi ritirato lo scorso anno dalla International Whaling Commission (IWC), ha ripreso, a partire dal 1 luglio 2019, la caccia alle balene. Lo scopo dichiarato di questa decisione non è più di natura scientifica, come finora giustificato dalle autorità, ma puramente commerciale. I giapponesi vogliono tornare a cibarsi di carne di balena e dei derivati del grande cetaceo.
Il consumo è comunque fortemente diminuito, ma resta ancora abbastanza popolare in particolare tra le generazioni più anziane. Negli anni Sessanta il Giappone consumava 200mila tonnellate di carne di balena all’anno, mentre in anni recenti il consumo è arrivato ad appena 5mila tonnellate. Un calo clamoroso dovuto anche alla scarsa disponibilità dell’alimento.
Le cinque baleniere salpate dal un porto nel nord del Paese potranno catturare, entro la fine dell’anno, 227 balene operando entro le acque territoriali e nella zona economica esclusiva del Giappone. Erano più di trenta anni che il Giappone non cacciava le balene a scopo commerciale, ma adesso l’intento del ministro della Pesca è di far rinascere l’industria della caccia e della lavorazione della balena e il relativo consumo.
Di seguito riproduciamo i due saggi brevi di Singer sulla questione del Giappone e della caccia alle balene e su quella, più in generale, della pesca.
La lotta alla caccia alle balene discrimina altre culture?
Non è in gioco l’estinzione delle balene
Trenta anni fa, le baleniere australiane, con la benedizione del governo, facevano strage di capodogli al largo delle coste dell’Australia occidentale. Oggi, l’Australia è il paese in testa alle proteste internazionali contro il piano del Giappone di uccidere 50 megattere. Il Giappone, sotto la pressione internazionale, ha annunciato che avrebbe sospeso il piano per un anno o due. Il cambiamento nell’opinione pubblica sulla caccia alle balene è stato drammatico e non solo in Australia.
È stata Greenpeace a dare il via alle proteste contro la caccia alle balene in Australia. Il governo ha chiamato Sydney Frost, un giudice in pensione, a dirigere un’inchiesta sulla caccia alle balene. Essendo anch’io australiano e anche professore di filosofia morale, ho presentato la proposta.
Non dico che la caccia alle balene deve finire perché le balene sono in pericolo. So che ci sono molti bravi ecologisti e biologi marini che hanno già avanzato questa tesi. Invece, sostengo che le balene sono mammiferi sociali con menti sviluppate; esseri capaci di godersi la vita e di provare dolore e non solo dolore fisico, ma molto probabilmente anche angoscia per la perdita di qualcuno del loro gruppo.
L’interrogativo etico sulle balene
Le balene non possono essere uccise in modo umano: sono troppo grandi e, anche con un arpione esplosivo, è difficile colpire la balena nel punto giusto. Inoltre, i cacciatori di balene non vogliono usare una quantità adeguata di esplosivo, perché ciò, danneggiando il corpo, metterebbe a rischio il prezioso olio e la agognata carne del cetaceo. Quindi le balene arpionate in genere muoiono lentamente e con dolore.
Ciò solleva un grande interrogativo etico sulla caccia alle balene. Se nell’uccidere le balene ci fosse una necessità esistenziale, di vita o di morte per gli umani, forse il caso etico contro la caccia alle balene potrebbe essere messo in discussione. Ma non c’è alcun bisogno umano essenziale che richieda l’uccisione delle balene. Tutto ciò che si prende dalle balene può essere ottenuto senza crudeltà da altre fonti. Causare sofferenza a esseri innocenti senza una ragione estremamente seria è profondamente sbagliato, e quindi la caccia alle balene non è etica.
Frost è d’accordo. Ha riconosciuto che non possono esserci dubbi sul fatto che i metodi usati per uccidere le balene siano inumani, li ha definiti come «i più orribili». Ha anche menzionato «la reale possibilità che abbiamo a che fare con una creatura che ha un cervello notevolmente sviluppato e un alto grado di intelligenza. Ha raccomandato di fermare la caccia alle balene e il governo conservatore, guidato dal primo ministro Malcolm Fraser, ha accettato la raccomandazione. L’Australia è presto divenuta una nazione anti-caccia alla balena.
Le motivazioni del Giappone
Nonostante la sospensione del piano per uccidere le balene megattere, la flotta baleniera giapponese ucciderà ancora circa mille esemplari, per lo più balenottere rostrate.
Giustifica la sua caccia come “ricerca” perché una disposizione presente nelle regole della Commissione internazionale per la caccia alle balene consente ai paesi membri di uccidere le balene a scopi di ricerca. Ma la ricerca sembra essere un pretesto per costruire un caso scientifico sulla caccia commerciale alla balena, quindi se la caccia alle balene non è etica, allora la ricerca di per sé non è etica.
Il Giappone dice di voler portare avanti la discussione sulla caccia alle balene con tranquillità, sulla base di prove scientifiche, senza “emotività”. Pensano di avere le prove per dimostrare che il numero delle balene megattere è aumentato a sufficienza per eliminare 50 esemplari senza costituire un pericolo per la specie. Su questo punto potrebbero avere ragione. Ma nessuna ricerca scientifica può dirci se uccidere o no le balene. L’“emotività” è quello che c’è dietro al desiderio giapponese di continuare ad uccidere le balene così come dietro l’opposizione degli ambientalisti occidentali a quest’omicidio. Mangiare balene non è necessario per la salute o per migliorare la nutrizione dei giapponesi. È una tradizione che desiderano continuare, presumibilmente perché alcuni giapponesi sono emotivamente legati ad essa.
Un argomento difficile da liquidare
I giapponesi hanno però un argomento che non è così facile da liquidare. Sostengono che i paesi occidentali si oppongono alla caccia delle balene perché per loro le balene sono un tipo speciale di
animali, come lo le mucche sacre per gli indù. Le nazioni occidentali non dovrebbero, dicono i giapponesi, cercare di imporre la loro cultura.
La migliore risposta a questo argomento è che infliggere sofferenze inutili agli esseri senzienti non è un valore che denota una cultura. È, per esempio, uno dei primi precetti di una delle principali tradizioni etiche del Giappone, il buddismo. Ma le nazioni occidentali sono in una posizione debole per dare questo tipo di risposta, perché loro stessi infliggono così tante inutili sofferenze agli animali. Il governo australiano, che si è schierato così decisamente contro la caccia alle balene, consente ogni anno lo sterminio di milioni di canguri. Lo stesso si può dire delle varie forme di caccia in altri paesi, per non parlare delle enormi quantità di sofferenza animale causate dagli allevamenti.
La caccia alle balene dovrebbe fermarsi perché porta sofferenze inutili ad animali sociali intelligenti capaci di avere una propria vita senziente. Ma contro l’accusa giapponese di pregiudizi culturali, le nazioni occidentali potranno mettere in campo poche difese finché non faranno qualcosa di molto di più sull’inutile sofferenza animale nei loro paesi.
I sostituti del pesce: si inizia a vedere qualcosa
Mentre i sostituti della carne stanno trovando uno spazio importante nella dieta delle famiglie, i sostituti del pesce hanno un peso irrilevante. Grazie a due coraggiose startup, premiate dagli investitor e dalla borsa, il consumo di sostituti della carne è cresciuta a tre cifre nel 2019 negli Stati Uniti, il maggior consumatore di carne del mondo. Beyond Meat e Impossible Foods, in particolare, stanno creando un mercato per i sostituti della carne che si avvicina al miliardo di dollari di valore.
Il loro approccio è innovativo. Il target principale non sono i vegani e i vegetariani, ma i consumatori di carne. Questi ultimi stanno rispondendo bene a un prodotto più sano, più ecologico e più etico che, a livello di gusto, è un buon concorrente della carne.
Per il pesce siamo poco più che a zero. Il mercato dei sostituti del pesce vale appena 10 milioni di euro. A questo gap intende mettere rimedio Chris Kerr che guida una sparuta pattuglia di investitori disposti a investire sulla sfida del nuovo cibo e del veganesimo.
Nel 2016 Kerr, tramite il veicolo finanziario New Crop, ha investito in una startup dal ben augurante nome di Good Catch. Good Catch si prefigge di produrre un sostituto del tonno con un mix di 15 differenti tipi di legume. In questi giorni le scatolette di questo prodotto è stato reso disponibile nei supermercati americani, a fianco delle confezioni di tonno. Good Catch sta parlando con Tesco nel Regno Unito per avviare un’operazione simile.
Quella di Kerr non è un’iniziativa isolata. Il “Financial Times” riferisce che negli Stati Uniti ci sono almeno 20 startup che stanno lavorando sui sostituti del pesce. La stessa Impossibile Food li considera una priorità. Kerr vede uno spazio enorme a livello globale per i sostituti vegetali del pesce. Il mercato globale del pesce è stimato intorni ai 500 miliardi di dollari.
Chad Sarno, l’amministratore delegato di Good Catch, ha detto di avere testato, in fase di sviluppo, il tonno vegetale con il suo gatto. Un giorno dopo aver messo a punto alcuni ingredienti ha avuto il suo “wow moment”. Appena ha aperto la scatoletta il gatto è arrivato correndo e se l’è mangiata tutta. Se il gusto piace al palato sopraffino del gatto, perché dovrebbe fallire con le persone?
Di seguito riproduciamo il contributo di Peter Singer sul dolore dei pesci.
Buona lettura!
Se i pesci potessero gridare il loro dolore
L’orribile pena inflitta dalla pesca
Quando ero un bambino, mio padre mi portava a fare delle passeggiate, spesso lungo un fiume o in riva al mare. Passavamo a fianco di persone che pescavano, spesso curvati sulle loro lenze che avevano uncinato un pesce. Una volta ho visto un uomo prendere un piccolo pesce da un secchio e infilarlo, ancora guizzante, su un amo per utilizzarlo come esca.
Un’altra volta, quando il nostro cammino ci ha portato in riva a un ruscello tranquillo, ho visto un uomo seduto a guardare la sua lenza, apparentemente in pace con il mondo, mentre accanto a lui i pesci, che aveva già catturato, stavano contorcendosi disperatamente e ansimando nell’aria. Mio padre mi disse che non riusciva a capire come qualcuno potesse godersi un pomeriggio trascorso a pescare in riva a un fiume circondato da una così orribile sofferenza.
Questi ricordi d’infanzia mi sono tornati in mente quando ho letto Worse Things Happen at Sea: The Welfare of Wild-Caught Fish, un rapporto rivoluzionario pubblicato su fishcount.org.uk. Nella maggior parte del mondo è ormai accettato che gli animali devono essere uccisi per diventare cibo. Questo atto, di per sé barbarico, dovrebbe essere attuato senza sofferenza. Normalmente i regolamenti per la macellazione richiedono che gli animali siano sedati prima dell’esecuzione o che la morte debba avvenire istantaneamente o, nel caso della macellazione rituale, avvenire più vicino possibile all’istante, come vuole la dottrina.
La pesca uccide barbaramente
Non per i pesci. Non esiste un obbligo di macellazione umana per i pesci catturati e uccisi in mare, né, nella maggior parte dei casi, per i pesci d’allevamento. I pesci catturati con le reti dei pescherecci vengono scaricati a bordo dell’imbarcazione e lasciati soffocare. Nella tecnica di pesca commerciale conosciuta come pesca con palangari, i pescherecci da traino rilasciano lenze che possono essere lunghe molti chilometri, con centinaia o addirittura migliaia di ami. È probabile che i pesci che catturano l’esca rimangano pienamente consapevoli mentre vengono trascinati per molte ore con gli ami issati nelle loro bocche, fino a quando non viene ritirata la lenza.
Allo stesso modo, la pesca commerciale spesso dipende da tramagli, vere e proprie pareti di reti sottili in cui i pesci rimangono imbrigliati, spesso con le branchie. Possono soffocare nella rete, perché non riescono più a respirare. In caso contrario, rimangono intrappolati per molte ore prima che le reti siano tirate a bordo.
La rivelazione più sorprendente nel rapporto, tuttavia, è il numero impressionante di pesci a cui gli umani infliggono queste morti atroci. Usando i tonnellaggi riportati delle varie specie di pesci catturati e dividendo per il peso medio stimato per ciascuna specie, Alison Mood, l’autore del rapporto, ha messo insieme quella che potrebbe essere la prima stima sistematica sulla dimensione della pesca globale annuale. È, lei calcola, nell’ordine di un trilione di esemplari.
Una dimensione raccapricciante
Mettiamo questo dato in un conteso più ampio. L’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura stima che ogni anno vengano uccisi 60 miliardi di animali terrestri vertebrati per il consumo umano — l’equivalente di circa nove animali per ogni essere umano sul pianeta. Se prendiamo la stima della Mood di un trilione, la cifra comparabile per i pesci è 150 a testa. Ciò non include i miliardi di pesci catturati illegalmente o scartati, né conta il pesce vivo impalato sugli ami come esca nella pesca con la lenza.
Molti di questi pesci sono consumati dalle persone, sono macinati per nutrire i polli dall’allevamento o altri pesci allevati industrialmente. Un allevamento industriale di salmoni utilizza 3–4 kg di pesce per ogni chilogrammo di salmone che produce.
Supponiamo che tutta questa pesca sia sostenibile, anche se ovviamente non lo è. Sarebbe rassicurante sapere che uccidere su una scala così vasta non abbia importanza, perché i pesci non sentono dolore. Ma i sistemi nervosi del pesce sono sufficientemente simili a quelli degli uccelli e dei mammiferi per pensare che sentano dolore.
La sensibilità dei pesci al dolore
Quando i pesci sperimentano qualcosa che causa dolore agli altri animali, si comportano in modo allusivo al dolore e il cambiamento nel loro comportamento può durare parecchio tempo. I pesci imparano a evitare esperienze spiacevoli, come quelle delle scosse elettriche. E gli antidolorifici, come nelle persone, riducono i sintomi di dolore che altrimenti verrebbero palesemente mostrati.
Victoria Braithwaite, professore di biologia marina alla Pennsylvania State University, ha dedicato più tempo di qualsiasi altro scienziato a investigare il tema del dolore negli esseri acquatici. Il recente libro Do Fish Feel Pain? mostra che i pesci non solo provano dolore, ma sono anche molto più intelligenti di quanto la maggior parte della gente creda. L’anno scorso, un team di esperti scientifici dell’Unione europea ha concluso che c’è una grande quantità di prove a indicare che i pesci provano dolore.
Perché i pesci sono le vittime dimenticate nel nostro piatto? È perché sono a sangue freddo e coperti di squame? È perché non possono dare voce al loro dolore? Qualunque sia la spiegazione, le prove accumulate stanno a dimostrare che la pesca commerciale infligge una quantità inimmaginabile di dolore e sofferenza. Dobbiamo imparare a catturare e uccidere umanamente il pesce selvatico o, se ciò non è possibile, trovare alternative meno crudeli e più sostenibili per cibarsi della loro carne.