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Burundi, nel Paese africano più povero del mondo la sanità è un miraggio: la missione di un medico italiano che racconta

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Ho visitato tanti paesi poveri. Ricordo i bambini della Cordillera Blanca peruviana che nel 1982 cercavano avanzi di cibo nei rifiuti.

Quando Venuste mi ha detto che il Burundi è bellissimo ma è il paese più povero del mondo io pensavo di avere già visto tanta povertà e che più non potesse essercene.

Il Burundi è veramente bello, ricco di acqua e di coltivazioni. Da ignorante in economia ho capito che nei villaggi mangiano ciò che coltivano, quindi non hanno fame. Semplicemente non hanno null’altro oltre quello che fortunatamente dona la terra. Le scuole sono in vacanza, anche i bimbi più piccoli lavorano nei campi ed è un via vai continuo di corpi sommersi dai raccolti che portano da un posto all’altro. Il minimo sulle teste sono caschi di platani o banane. Da dietro ogni cespuglio emergono gruppi di bimbi. Le montagne hanno alberi bellissimi, ogni pezzo di terra è ben coltivato. Riso, thé, caffè, legumi, cavolo, a seconda dell’altezza. Mio padre avrebbe ammirato i terrazzamenti perfetti. In tutto ciò nessun mezzo meccanico. Vedo solo mani e zappe. Alcuni fortunati ammassati su una bicicletta.

L’inferno e il paradiso dell’ospedale di Gitega

Quello di cui sono ricchi sono gentilezza e sorrisi. Nei piccoli villaggi vedo le farmacie. Gli scaffali vuoti.

Arriviamo all’ospedale pubblico di Gitega, grande città del Burundi. Bunjumbura è la capitale economica, sede di ambasciate e ministeri.

L’ospedale è pulito, accogliente, i vari padiglioni collegati da giardini. L’unico specialista è un pediatra neonatologo. Gli altri sono medici non specialisti che fanno veramente l’impossibile. Gli infermieri bravissimi ma catapultati anche loro verso l’impossibile. A loro è affidata l’anestesia. Chiediamo quali siano i bisogni. Ginecologi, chirurghi, anestesisti.

Il reparto operatorio è ben tenuto ma non ha condizionatori, le luci sono scarse, una sala inutilizzabile perché è rotto il lettino.

Le donne fanno di tutto per arrivare dai villaggi a partorire in ospedale. Se ci riescono sanno di avere un neonatologo per il loro bimbo ma sanno anche di partorire a terra perché non ci sono lettini.

Il mio pensiero va inevitabilmente a chi è troppo lontano da un punto sanitario ma anche al medico che, senza alcuno strumento, fa quello che può nei villaggi. Il governo fa le campagne vaccinali e riesce a raggiungere quasi tutti.

La ricchezza del cuore e la povertà della vita

Che debbo pensare? Non ci meritiamo la scienza applicata ai nostri piccoli o grandi problemi di salute. Non meritiamo i vaccini facili, i parti sicuri, le farmacie con gli antibiotici, ammesso che ci degniamo di farci visitare e diagnosticare una polmonite. Non ce lo meritiamo perché dopo Gitega tutto il mondo è un di più. Abbiamo e filosoficamente contestiamo. Abbiamo e politicamente non siamo in grado di mantenere. Abbiamo e non sappiamo sorridere. Abbiamo e giudichiamo chi non ha. Abbiamo e chi non ha è una saltuaria immagine di internet o di un telegiornale.

La bimba di Venuste, nove anni, la prima volta in visita nel paese del papà, ci dice di sentirsi in colpa, lei fortunata bimba dal colorito solo abbronzato e con le tipiche treccine africane, che può cambiare la propria maglietta ogni giorno. Le spieghiamo che non ha nessuna colpa.

La grazia di chi ha poco e il peso di chi ha tanto

A Munjumbura cominciamo a lavorare alle nove e andiamo avanti senza pause fino al pomeriggio alle tre, forse le quattro. La Chiesa ha costruito da anni un centro sportivo in un quartiere povero. C’è anche una biblioteca. Siamo abituati ad arrangiarci e riusciamo a fare uno screening cardiologico, con anche un test da sforzo e una misura della forza esplosiva, a quaranta ragazzi tra i sei e i 16 anni.

Sono educati, disciplinati, felici di ciò che offriamo. La sera a cena i più grandi ci chiederanno il nostro numero di telefono per avere eventuali consigli. Qualcuno continuerà a giocare lì, qualcuno diventerà educatore, qualcuno ha già la potenzialità di diventare un atleta. Tutti avranno ricevuto qualcosa.

Finalmente rivedo anche Omer, conosciuto nel 2016 a Montecarlo, a Peaceandsport. Porta avanti un lavoro grandioso con lo sport per i disabili. In un paese di Ultimi che sarebbe di loro?

È naturale che in questa situazione pensiamo se riusciremo ad avere i soldi per regalare un ecografo, una lampada da sala chirurgica, un’intera sala d’emergenza, un non so che di utile.

Il dolore di una vita decisa dalle cicogne

All’improvviso mi sento ricca, non certo di denaro. Ho la ricchezza di essere medico. Se fossi avvocato o ingegnere o economista non potrei soddisfare la povertà più urgente, il diritto alla salute e la salvezza dalla morte per malattie banali.

Ecco questo è quello che io posso fare.

La mia soluzione però non può essere la Soluzione. Non posso non pensare alle soluzioni che chi ha potere e competenze dovrebbe mettere in atto. Penso alle cicogne che con gioia vengono attaccate sui muri delle case quando nasce un bimbo.

Non possiamo accettare che il futuro di un essere umano sia segnato solo dal luogo dove una cicogna apre il becco e decide di depositare un fagottino con dentro una vita.

Ogni posto deve assicurare il diritto alla vita.

Questo non è mia competenza ma è mio dovere ricordarlo, dire che esiste, che l’ho visto e toccato.

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