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Burocrazia sul banco degli imputati: la sua nemesi è l’umanocrazia

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In Italia, ma anche nel mondo, abbiamo un problema, anzi due. La burocrazia e il modo di pensare burocratico. Il problema è enorme, perché infiltrante.

La ragion pura, la ragion pratica, la ragion logica è stata sussunta nella ragion burocratica. Un sistema di pensiero omologante, standardizzante, offuscante, avvolgente, autoreferente e alla fine castrante.

Il sistema di pensiero burocratico, sul quale Kafka ha costruito la sua poetica, non solo vige nell’amministrazione delle cose comuni o nelle stesse relazioni interpersonali, ma è diventata il sistema di pensiero dominante a tutti i livelli, anche nelle organizzazioni. Ormai si guarda l’operare con il filtro del pensare burocratico o psuedo-legale. Nessuno di quelli postulati dalla grande filosofia classica o dai grandi pensatori dell’otto-novecento (quello utilitaristico, quello dell’imperativo categorico, quello classista, quello dell’ignoranza) è più in azione. Vige il filtro burocratico.

Potremmo parafrasare l’incipit del Contratto sociale di Rousseau (“L’uomo nasce libero e ovunque è in catene”) con “L’uomo nasce ed è ovunque incatenato dalla burocrazia”. Nello stesso modo, potremmo parafrasare il noto motto di Marx ed Engels (“I proletari non hanno nulla a perdere, all’infuori delle loro catene”) — che sviluppa volutamente quello di Rousseau — con «I cittadini non hanno nulla da perdere se non le loro catene burocratiche», in una prossima rivoluzione… ognuno metta il suo aggettivo.

L’umanocrazia

Per me è Humanocracy. L’umanocrazia è la nemesi della burocrazia. Si tratta di un concetto formidabile e dirompente perché vuol dire zero burocrazia, zero pensiero burocratico, zero ossificazione, 100 per 100 liberazione.

A coniare questo termine, e a dedicarci un libro, è stato Gary Hamel, docente della London Business School. Per il “Wall Street Journal” è il business thinker più influente del mondo.

Il libro si apre con queste parole:

Cosa impedisce alle nostre organizzazioni di crescere e adattarsi ad un mondo sempre più incerto e imprevedibile? Cosa le rende incapaci di innovare, individuare il pericolo, cogliere opportunità? Cosa trattiene quotidianamente le persone che vi lavorano, cosa mina la loro creatività, il loro desiderio di realizzarsi? C’è un un’unica risposta a tutte queste domande: la burocrazia. 
Lungi dall’essere una patologia esclusiva del settore pubblico, la burocrazia è di fatto la struttura sociale più diffusa sul pianeta.

Meglio non si poteva dire.

Si tratta del primo paragrafo del secondo capitolo “La burocrazia sul banco degli imputati”.

Quì di seguito un ampio estratto da Humanocracy. Imprese straordinarie come le loro persone, di Gary Hamel e Michele Zanini con la traduzione di Diego Tronca, Ayros Edizioni 2021 (in cartaceo e digitale). Già disponibile su tutte le piattaforme online e nelle librerie delle città

Il design organizzativo

Smantellare la burocrazia è un’enorme sfida. Prima di accettarla, è necessario convincersi del fatto che gli handicap organizzativi descritti nel Capitolo 1 di questo libro sono proprio ascrivibili alla burocrazia. Nel presente capitolo esporremo gli articoli di questo impeachment. In che modo le caratteristiche archetipiche della burocrazia — stratificazione dei diritti di decisione, formalizzazione dei confini fra unità, specializzazione dei ruoli e standardizzazione delle prassi — minano l’adattabilità, l’innovazione e l’engagement aziendale? Perché la burocrazia deve essere destituita? Perché questa è una causa per cui vale la pena battersi?

Centralizzare?, anche no

Provate a chiedere a qualcuno di fare un disegno della sua organizzazione e quasi sicuramente otterrete il classico diagramma a struttura piramidale formato da linee e riquadri. Una catena di comando fissa è una delle strutture sociali più durevoli dell’umanità. È semplice, scalabile e apparentemente eterna.

È facile credere che, senza una struttura in cui il potere procede dall’alto verso il basso, l’agire umano su ampia scala sia impossibile. Il principio dell’unità di comando assicura chiarezza alla direzione da cui giungono gli ordini. La precisa definizione delle linee di potere riduce al minimo l’ambiguità. L’organizzazione stratificata dei diritti di decisione permette di bilanciare potere e competenza. Senza una gerarchia formale, c’è l’anarchia, giusto? Beh, non è detto.

Considerate il progetto Atlas, una delle quattro iniziative di ricerca realizzate per il Large Hadron Collider. Il progetto Atlas è stato lanciato nel 1992, coinvolgendo più di 3000 scienziati di 180 istituzioni nel tentativo di svelare i segreti più profondi dell’universo. A tal fine, il team Atlas ha costruito una delle macchine più sofisticate mai realizzate — un gigantesco rivelatore di particelle, alto 45 metri e largo 25, con più di 10 milioni di componenti assemblate nella profondità del suolo di un bucolico paesino svizzero.

Il giusto design organizzativo

Nelle prime fasi del progetto, il consorzio Atlas ebbe difficoltà a trovare il giusto design organizzativo. Considerata la novità dell’iniziativa, era necessario scomporre la progettazione e lo sviluppo del rivelatore in vari sottoprogetti che potessero essere affrontati da piccoli gruppi di scienziati. D’altra parte, tutti questi sottosistemi, e ne esistevano a centinaia, dovevano integrarsi in modo perfettamente armonioso.

E qui stava il dilemma. Se da un lato piccoli team autonomi avrebbero eccelso nel problem solving creativo, dall’altro avrebbero avuto non poche difficoltà in termini di coordinamento di alto livello. Per contro, un’organizzazione centralizzata avrebbe potuto funzionare meglio nell’integrazione dei sistemi, ma sarebbe stata sopraffatta dal grande numero di problemi completamente nuovi che si sarebbero dovuti affrontare.

Una struttura dall’alto verso il basso avrebbe inoltre incontrato la resistenza di scienziati accanitamente indipendenti, la cui competenza era cruciale per la riuscita del progetto.

Coordinamento tra pari

Alla fine, il consorzio optò per una struttura dal basso verso l’alto che fosse fondata su un coordinamento fra pari, anziché far capo a un gruppo di project manager di grado superiore. Ogni sottosistema aveva il proprio comitato, che includeva tutti gli scienziati che lavoravano a un particolare aspetto del progetto.

Le discussioni all’interno di questi comitati erano aperte e collegiali, ma potevano anche essere molto accese. In caso di impasse, i gruppi contrapposti discutevano il problema davanti ai colleghi che poi votavano l’opzione ritenuta migliore. Quando emergevano problemi che coinvolgevano trasversalmente più sottosistemi, venivano organizzati dei gruppi di lavoro temporanei che elaborassero apposite soluzioni.

Per esempio, quando il progetto del principale magnete rivelatore mostrò che tale componente richiedeva più spazio rispetto a quanto prospettato in origine, con conseguente riduzione dello spazio disponibile per altre apparecchiature, fu organizzata una task force per escogitare una soluzione.

Senza capi si può fare lo stesso

Nel corso di tutto il progetto, i comitati dei singoli sottosistemi pubblicavano informazioni in tempo reale in merito ai loro progressi, che venivano poi commentate online da rilevanti esperti in materia. A livello strategico, un comitato di collaborazione gestiva le decisioni principali. Ogni istituzione partecipante aveva un posto nel comitato ed era richiesta la maggioranza dei due terzi per dare il via libera a una decisione.

La realizzazione del rivelatore Atlas richiese grandi dosi di leadership e creatività. Ciò che non richiese è una struttura piramidale. Nessuno nel consorzio Atlas aveva il potere di dare ordini. Erano tutti colleghi e non c’erano capi. Eppure, il rivelatore Atlas fu completato entro i tempi e il budget previsti.

Quando un’organizzazione deve affrontare un gran numero di problemi nuovi, una struttura dall’alto verso il basso agisce verosimilmente come un collo di bottiglia. Via via che i problemi aumentano, questi si accumulano e ristagnano davanti all’ufficio di senior leader che spesso non hanno la competenza e la prontezza di prendere decisioni rapide e brillanti. Nel tempo, gli arretrati si accumulano e il ritmo del decision-making rallenta. La stratificazione è nemica della velocità.

Un capo tra paggi

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Un’altra vittima della centralizzazione è il cambiamento proattivo. In una gerarchia formale, il potere di avviare un cambiamento tende a essere concentrato ai vertici. La maggior parte delle svolte richiede l’approvazione dall’alto. Il problema è che, nel momento in cui una questione diventa abbastanza grande da catturare la scarsa attenzione del capo, l’organizzazione è ormai in ritardo sui tempi.

Sotto vari punti di vista — organizzativo, culturale e geografico — i leader sono isolati dalle frange dove prendono forma nuove tendenze. Questo isolamento è esacerbato da ossequiosi sottoposti che hanno imparato che non c’è alcun guadagno nel farsi portavoce di cattive notizie. Ma l’aspetto più deleterio è che i dirigenti senior sono imprigionati nelle loro logore convinzioni. E nonostante tutto questo, ci si aspetta che intercettino il futuro. Speranza vana.

Il caso Microsoft

Considerate il caso Microsoft. Negli anni Ottanta, il business model «PC-centrico» di Microsoft è stato il motore che ha catapultato l’azienda nel firmamento dei grandi brand. Tuttavia, nei decenni successivi, Microsoft si è trovata spesso in difficoltà a tenere il passo.

Come per la maggior parte dei ritardatari, il problema non era la mancanza di competenza. In una miriade di gare, Microsoft si è fatta trovare puntuale al nastro di partenza. Ai livelli profondi dell’organizzazione, giovani team mettevano assieme risorse e costruivano prototipi all’avanguardia.

Ma solo pochi di questi sforzi hanno attirato sponsor di alto livello. La maggior parte delle iniziative è rimasta a languire, ignorata, nei meandri dell’azienda. Altre sono state spente per ordine imposto dall’alto.

Il caso del motore di ricerca Bing

La battaglia nel campo dei motori di ricerca ne è un tipico esempio. Solo nel 2003, cinque anni dopo il lancio del motore di ricerca di Google, la dirigenza Microsoft stanziò 100 milioni di dollari per lo sviluppo di un servizio concorrente.

Per anni Chris Payne, il giovane vicepresidente nominato alla guida del progetto «Underdog» aveva tenuto d’occhio Google e aveva cercato ripetutamente di fissare un incontro con Bill Gates, presidente e Chief Software Architect di Microsoft.

Purtroppo, quando Payne riuscì a ottenere il tanto sospirato incontro, Google aveva ormai costruito un vantaggio insormontabile.

La miopia di Ballmer

In altre occasioni, a mettere il bastone tra le ruote degli aspiranti innovatori è stata la fissazione di Microsoft per Windows. Nel 2009, un anno prima del lancio dell’iPad di Apple, un team di Microsoft propose un prototipo di tablet a Steve Ballmer, che nel 2008 aveva assunto il ruolo di CEO al posto di Gates.

Il dispositivo, il cui nome in codice era Courier, era stato annunciato come «una strabiliante interpretazione del tablet» da un blogger di tutto rispetto a cui era stata concessa una prova in anteprima. Ballmer rimase meno impressionato. Perché, chiese con rabbia, il team non aveva usato Windows come sistema operativo del nuovo dispositivo? Insoddisfatto della risposta, Ballmer mise fine al progetto.

Satya Nadella, by-by ortodossia

Nel 2014, Satya Nadella prese il posto di Ballmer come terzo CEO di Microsoft. Da allora, l’azienda ha registrato grandi successi, con un total shareholder return fino al 450%. Finalmente libero di ammettere ciò che molti dipendenti e osservatori sapevano ormai da tempo, Nadella dichiarò pubblicamente che uno dei più grandi sbagli di Microsoft era stato quello di «pensare al pc come il fulcro di ogni cosa per i secoli a venire».

Agendo sulla base di questa convinzione, Nadella ridimensionò l’influenza della divisione Windows reindirizzando gli investimenti verso Azure, il business in forte crescita di Microsoft orientato al cloud computing. Nel 2018, l’azienda ha subito una riorganizzazione interna con la scomparsa del gruppo Windows, il cui personale è stato assorbito dai team di Azure e Microsoft Office.

Anche se Gates e Ballmer hanno il merito di aver scelto un leader che avrebbe messo in discussione la soffocante ortodossia di Microsoft per il pc, la loro obsoleta visione del mondo ha paralizzato a lungo l’azienda.

Essi credevano che per fare soldi bisognasse vendere licenze software, anziché offrire i software come servizio mensile. Vedevano nei Chief Information Officers (cio) i loro clienti principali, non nei team o nei singoli individui. Per loro, il telefono era solo un telefono, non un computer tascabile.

L’ossificazione ha un prezzo: la burocrazia

Nel 2007, Ballmer dichiarò che «non c’è nessuna possibilità che l’iPhone raggiunga una quota di mercato significativa — nessuna possibilità». Dodici anni dopo, Gates ammise che se fosse stata meno miope, Microsoft avrebbe potuto anticipare Android — un errore che, in base alla sua stima, era costato a Microsoft una perdita di 400 miliardi di dollari in valore di mercato.

È facile incolpare Gates e Ballmer per i passi falsi di Microsoft, ma è un’accusa fuori luogo. Il vero colpevole è la burocrazia. In un’organizzazione gerarchica, la responsabilità di definire una strategia e un orientamento è nelle mani di un piccolo gruppo di dirigenti senior. Ci si aspetta che chi è ai vertici sia straordinariamente lungimirante, curioso e creativo. Nella realtà dei fatti, spesso non è così.

La stratificazione della burocrazia

Il ruolo del patrimonio emotivo

In primo luogo, è frequente che i senior leader investano molto del loro patrimonio emotivo nel passato. L’età media di un CEO di un’impresa S&P 500 è attualmente di cinquantotto anni, tre anni in più rispetto al dato del 2008. La durata media del mandato è di undici anni, il periodo più lungo registrato dal 2002.

Se da un lato i leader veterani possono avere il vantaggio dell’esperienza, dall’altro si portano sulle spalle il peso di credenze ormai retaggio del passato. Molte delle loro convinzioni sui clienti, sulla tecnologia e sull’ambiente competitivo sono state forgiate anni o decenni prima e riflettono un mondo non più esistente.

In secondo luogo, il rango e l’umiltà sono spesso inversamente proporzionali. Il potere, come osservò l’ormai defunto Karl Deutsch, «è il privilegio di non dover imparare». È in questa verità che troviamo la più grande minaccia alla resilienza organizzativa: la riluttanza o l’incapacità dei senior leader di considerare irrecuperabile il loro capitale intellettuale ormai privo di valore.

Questa mancanza sarebbe meno deleteria se i subordinati si sentissero autorizzati a sfidare i dogmi della C-suite, ma la maggior parte dei manager di medio livello non è incline a mordere la mano che li nutre. Così la miopia percola verso il basso, nella stessa direzione in cui si trasmette l’autorità.

La burocrazia è il killer anche del business

La capacità di un’organizzazione di rinnovarsi non dovrebbe mai dipendere dalla capacità di una manciata di senior leader di imparare e disimparare, ma in una burocrazia è spesso così. Gli Stati Uniti ne rappresentano il controesempio.

La resilienza dell’America non è mai dipesa eccessivamente da chi siede nello Studio Ovale. Al contrario, il dinamismo del Paese è il prodotto dei principi racchiusi nei documenti costitutivi della nazione: l’avversione verso l’autocrazia, la credenza nell’agire umano, l’apertura all’immigrazione, il rispetto per la diversità etnica e religiosa, l’impegno verso la libertà di parola e l’entusiasmo per il commercio.

L’America è stata capace di reinventarsi continuamente perché milioni di cittadini americani hanno avuto la libertà di reinventare loro stessi.

Qualcuno scherzando ha detto che l’America è un Paese inventato da geni per essere governato da idioti — un’osservazione che a volte, in modo preoccupante, sembra quasi colpire nel segno.

Le burocrazie sono progettate da idioti

Per contro, le burocrazie sembrano essere state progettate da idioti per essere governate da geni. Sarebbe fantastico se tutti i capi avessero l’istinto per l’innovazione di Steve Jobs, l’abilità politica di Lee Kwan e l’intelligenza emotiva di Madre Teresa. Purtroppo, la maggior parte non ha queste doti.

Pur essendo comuni mortali, i capi vengono spesso pagati come se fossero onniscienti. Attualmente, la retribuzione media di un CEO nelle 350 imprese più grandi d’America è di 17,2 milioni di dollari all’anno, pari a 278 volte lo stipendio annuo di un tipico addetto alle relazioni con i clienti6. Non è chiaro se con quei milioni si possa comprare molto in termini di vision. Vari studi hanno rivelato che la correlazione tra la retribuzione di un CEO e la performance azionaria relativa è trascurabile o lievemente negativa. Nessuna quantità di denaro può trasformare un dirigente in Iron Man o Wonder Woman.

Non ci sono leader sovrumani

Nell’era dei cambiamenti radicali, le dosi di lungimiranza e ingegno richieste per mandare avanti una grande impresa superano quelle possedute da qualunque singolo individuo o piccolo team — e l’asticella si fa sempre più alta. In breve, le strutture burocratiche chiedono ai leader più di quanto essi possano dare.

Come disse una volta il nostro amico Vineet Nayar, ex CEO della gigante IT indiana HCL Technologies: «L’idea del CEO come capitano della nave è fallimentare». Bisogna smetterla di cercare leader sovraumani. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono leader straordinari, ma organizzazioni che sappiano mobilizzare e monetizzare il genio quotidiano di lavoratori «ordinari».

In un mondo complesso, le organizzazioni devono avere la flessibilità di abbinare ogni problema alla mente più adeguata. Diversamente dal potere formale, la saggezza è parziale; è fluttuante ed è condizionata al problema in questione. Pertanto, anziché di una singola gerarchia fissa, abbiamo bisogno di una molteplicità di gerarchie dinamiche in cui chi è al comando dipenda dal problema da affrontare. Occorrono organizzazioni dove sia possibile mettere in discussione l’opinione di tutti, dove l’influenza sia il reciproco della followership e dalle quali siano tagliati fuori i leader incompetenti.

Solo i piccoli team sono allineati

E cosa dire dell’allineamento — la capacità di far sì che tutti abbiano lo sguardo puntato nella stessa direzione? Come si può ottenere l’unità di propositi senza l’unità di comando? In primo luogo, l’allineamento è sopravvalutato. Certo, è importante, ma non in modo così assoluto.

In un mondo pieno di minacce e opportunità inattese, le organizzazioni devono sperimentare decine, se non centinaia, di opzioni strategiche. C’è sempre il rischio di sprecare sforzi in iniziative marginali, ma il rischio più pericoloso è la miopia del potere.

In secondo luogo, come abbiamo visto nel caso del progetto Atlas, gli esseri umani sono perfettamente in grado di perseguire un obiettivo comune senza un faraone che li comandi.

La maledizione della burocrazia

Non sorprende che le nostre organizzazioni siano inerti, incrementali e poco entusiasmanti. Come potrebbe essere altrimenti quando la burocrazia:

— accorda una fiducia eccessiva alle opinioni di leader legati a modelli obsoleti;
 — disincentiva il pensiero ribelle;
 — crea lunghi ritardi tra percezione e reazione;
 — irrigidisce le strutture organizzative;
 — imprigiona i leader nella solitudine e li rende ciechi alle opportunità;
 — rende i compromessi subottimali;
 — vanifica la rapida redistribuzione delle risorse;
 — disincentiva l’assunzione del rischio;
 — politicizza l’attività di decision-making;
 — crea lunghi e tortuosi percorsi di approvazione;
 — disallinea il potere e la capacità di leadership;
 — limita le opportunità di offrire contributi individuali;
 — mina la responsabilità del personale a contatto diretto coi clienti;
 — sminuisce sistematicamente l’originalità.

La burocrazia è demoralizzante e debilitante, eppure persiste. Anziché costruire organizzazioni a misura d’uomo, stiamo ancora forgiando esseri umani a misura di burocrazia.

Da:Humanocracy. Imprese straordinarie come le loro persone, di Gary Hamel e Michele Zanini con la traduzione di Diego Tronca, Ayros Edizioni 2021, pp. 25–32

Gary Hamel insegna alla London Business School. È stato indicato dal “Wall Street Journal” come il business thinker più influente al mondo. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 25 lingue.

Michele Zanini è cofondatore di Management Lab, un’organizzazione che sviluppa tecnologia e strumenti per creare aziende più resilienti, innovative, e coinvolgenti. È stato consulente in McKinsey & Company e analista in RAND Corporation e ha conseguito lauree presso la John F. Kennedy School of Government alla Harvard University e la Pardee RAND Graduate School.

Categories: Cultura