La faccenda delle notizie palesemente false, subdolamente tendenziose e la diffusione imbarazzante del cosiddetto “hate speech” nel mainstream del dibattito pubblico è all’ordine del giorno in Europa e soprattutto negli Stati Uniti. Geert Wilders, Il capo del Partito delle Libertà olandese, ha ricevuto una condanna a tre mesi di detenzione per un suo discorso offensivo nei confronti dei marocchini. La CIA ha le prove di un’ingerenza russa nelle elezioni americane a discapito dei democratici. L’amministrazione Obama sta varando delle sanzioni contro la Russia. Piove sul bagnato. In tutto questo l’opinione pubblica liberale vi intravede un complotto di Putin che tirerebbe le fila di una internazionale sovversiva di hacker e sobillatori sociali (nel senso di social media) con l’obiettivo di minare la credibilità dei candidati dei partiti ostili alla Russia, in pratica tutti i partiti di centro-sinistra e di destra moderata. Pure Wikileaks prenderebbe i rubli. Anche Snowden fa la spesa in rubli. L’estrema destra non fa mistero di considerare Putin il “capo del mondo libero”.
Può essere tutto questo, ma il complottismo non ha mai spiegato niente. Neppure nell’epoca d’oro della terza internazionale e del KGB di Yuri Andropov, l’Unione Sovietica, che poteva vantare una rete ben più sofisticata, capillare e autorevole di quinte colonne, agitatori e agenti (tra cui lo stesso Putin), è riuscita a influire significativamente sull’esito delle elezioni in paesi di solida democrazia come gli Stati Uniti, la Francia o la Germania.
Il New York Times ha speso tre colonne del prezioso spazio della propria edizione a stampa per descrivere come i russi, in connessione con soggetti vicini al M5S e a Salvini, hanno diffuso, attraverso la rete e i social, notizie di discutibile attendibilità per orientare verso il no l’elettorato italiano nel referendum costituzionale. È vero che di balle ne sono circolate tante, ma che queste abbiano potuto spostare l’opinione pubblica di 20 punti percentuale è molto opinabile.
Abbiamo già il termine che definisce questa rivoluzione del mondo dell’informazione. Il termine è “era post-verità”. E proprio il termine post-truth è stato scelto dall’Oxford English Dictionary come “word of the year”. Anche in Germania la parola dell’anno è “Postfaktisch”. Quindi siamo a posto, la faccenda è legittimata almeno a livello linguistico. A guardare bene, la post-verità non è altro che una manifestazione estrema del ben conosciuto fenomeno della verità che viene modellata per entrare in una ben precisa forma ideologica. Oggi più che il fattore ideologico è quello trasversalmente identitario a innescare questo meccanismo che viene rimbalzato istericamente sui social media come una particella impazzita. Questo fattore identitario viene determinato, soprattutto, dalle condizioni materiali di determinati ceti e gruppi sociali che, nei paesi sviluppati, sperimentano la faccia brutale della globalizzazione. E a proposito del rapporto tra il materiale e l’ideale, sarebbe proprio il caso di rileggere l’Ideologia tedesca di Carl Marx.
O il responsabile è la rete?
La causa di questo trend nefasto nell’informazione non è Putin, ma è la rete e i meccanismi assolutamente fuori da ogni controllo che la sua universalità ha prodotto nella diffusione delle informazioni, delle idee e nell’aggregazione di soggetti con visioni e problemi simili, ben oltre i confini nazionali e le aree linguistiche. C’è poi l’aspetto economico della rete: notizie sensazionali portano traffico e il traffico porta quattrini. Sulla scena politica delle democrazie occidentali ha eruttato la cosiddetta “fabbrica dei meme”. Basta guardare a quello che è successo ad alcuni teenager della piccola città di Veles in Macedonia.
Invece di lavorare come camerieri per 300 euro al mese in qualche caffè della cittadina, questi ragazzi hanno registrato centinaia di domini e prodotto migliaia di pagine Facebook attraverso le quali diffondere notizie tanto sensazionali quanto palesemente senza fondamento (papa Francesco che chiede il voto per Trump o la Clinton coinvolta in un traffico di minori) rivolte agli elettori di simpatie trumpiane che a loro volta le hanno rimbalzate compulsivamente sui social fino a farle entrare nei twitt del twitter in chief. Uno di questi teenager macedoni ha dichiarato che riceve da Google circa 8000 euro al mese per la pubblicità che gira su queste pagine. Una somma inferiore, ma interessante, la riceve da Facebook. Adesso questi bravi ragazzi si stanno preparando per le elezioni francesi e tedesche e anche per quelle italiane se ci saranno a breve.
I veicoli di diffusione di questa vera e propria paccottiglia sono appunto due delle prime dieci società più capitalizzate del pianeta, Google e Facebook. Ora dicono di fare qualcosa per evitare la diffusione di notizie false, ma per come sono fatti non possono fare niente che abbia una qualche efficacia. A questo proposito scrive Kenan Malik in un fondo sul New York Times: “Il problema delle notizie false è più complesso di quanto comunemente si creda e le sue soluzioni spesso sono peggiori del problema stesso. Si chiede a Facebook di censurare i feed ed estirpare le storie false e alla legge di punire severamente i propagatori di bugie. Ma chi dovrebbe decidere ciò che è falso da quello che non è? Vogliamo che sia Mark Zuckerberg o il governo degli Stati Uniti a determinare la verità?”. No, ovviamente. Timothy Garton Ash, autore del libro Free Speech: Ten Principles for a Connected World, sul Financial Times del 24 dicembre suggerisce una soluzione endogena alla fabbrica dei meme, una sorta di reazione immunitaria che vede la parte sana dell’opinione pubblica trasformarsi in una sorta di “cane da guardia” del fatti che agisce sugli stessi strumenti che usa la fabbrica dei meme.
I cuochi di Breitbart
Ci sono i falsari come i teenager di Veles, ma ci sono anche i cuochi dell’informazione. E che chef!. Il master chef è senza dubbio Steve Bannon, presidente di Breitbart News e adesso chief strategist di Donald Trump. Bannon e il team di Breitbart News hanno veramente capito le potenzialità inimmaginabili della rete per reclutare e attivare efficacemente un ben individuato strato di elettorato e azionarlo come un branco di zombi azzannatori. La gente di Breitbart, non è “una manica di coglioni” come ha detto un aiuto di Mitt Romney, ma è un gruppo di raffinatissimi professionisti dell’informazione che sa cucinare le notizie come Walter White di Breaking Bad sapeva cucinare la metanfetamina. Del resto se funziona, che male c’è se l’informazione è un po’ maliziosa? Che male c’è a portare alle estreme conseguenze il principio del campo di distorsione della realtà? Non era quest’ultimo il mantra di Steve Jobs, la persona più ammirata e celebrata degli ultimi 10 anni? In realtà qualche problema c’è, ma non ce l’ha solo Breitbart.
A essere obiettivi questo campo di distorsione della realtà non avvolge solo gli alt-right, gli hard-right, i suprematisti, il klu klux Clan, i complottisti e i neonazisti, ma include anche testate che fanno riferimento alla cultura liberal. Pure il New York Times sembra essere stato attratto da questo campo distorsivo nel coprire la vita e le opere di Donald Trump. È stata proprio la costellazione liberal e antisistema dei siti di Gawker Media, fondato dall’ex giornalista del Financial Times Nick Denton, a creare l’accademia di un certo tipo d’informazione senza regole, senza riguardi per la privacy delle persone e volgarmente sbeffeggiante come certe performance di Crozza. Il team di Gawker si è spinto così avanti su questo viottolo da beccarsi la sanzione più severa nella storia del giornalismo; una sanzione, emessa da un tribunale della Florida, che ha portato al fallimento di Gawker e al ritiro di Denton. Un epilogo amaro che ha fatto versare qualche lacrima ai liberal di New York e all’amica Arianna Huffington. L’esperienza del liberal Gawker costruito sul concetto della “trasparenza radicale” postulato da Nick Denton e quella dei siti post-verità dell’alt-right legata all’elezione di Trump mostra quanto sia fondata la teoria degli estremi che si toccano come l’Alaska e la Siberia.
Ma torniamo a Breitbart News che ha annunciato di aprire i battenti nell’Europa continentale con due nuove iniziative, una in lingua tedesca e una in lingua francese. Il team di Bannon è già presente con una redazione a Londra che si rivolge al pubblico dei brexitari del Regno Unito. L’Economist ha dedicato un servizio (Breitbart News pushes deeper into Europe) allo sbarco della creatura di Bannon in Europa. Lo abbiamo tradotto in italiano per i nostri lettori. Se vi infastidiscono i titoli del Giornale, di Libero o del Fatto quotidiano, beh! non avete ancora visto niente. In ogni caso Sallusti, Belpietro e Travaglio possono dormire sogni tranquilli: Breitbart non aprirà in Italia… per ora.
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Un target ben definito
Un noto commentatore americano, Charles Krauthammer, scrive che il successo di Fox News si deve alla capacità del suo fondatore, Rupert Murdoch nell’aver individuato un mercato di nicchia: metà del Paese. La stessa cosa si può dire di Breitbart News, una testata online conservatrice le cui fortune sono cresciute insieme a Donald Trump e il cui presidente Stephen Bannon è ora il suo chief strategist
Milo Yiannopoulos, editor a Breitbart, spiega che dopo la vittoria di Trump metà degli elettori “sono disgustati da Lena Dunham (attivista per l’aborto), da Black Lives Matter, dalla terza ondata del femminismo, dai comunisti e dalla politica “uccidi tutti gli uomini bianchi” della sinistra progressista. E aggiunge: “Breitbart ha visto emergere questa tendenza un bel po’ di tempo fa”. I programmi di espansione della testata suggeriscono che qualcosa di simile sta per avvenire anche in Europa. È già presenta nel Regno Unito e in gennaio lancerà i siti francese e tedesco.
Fondata da Andrew Breitbart, un giornalista conservatore scomparso nel 2012, la testata ha appena 9 anni. La sua formula – offendere per mobilitare i lettori con una gran voglia di mordere, diffondere bufale occasionali, polemiche e attacchi contro i media maggiori – ha preso il volo. 10 giorni dopo le elezioni ha dichiarato di aver registrato 45 milioni di visitatori in un mese, un numero modesto se comparato a quello dei siti d’informazione maggiori. Ma il suo profilo sta crescendo rapidamente. In un determinato periodo di tempo – per esempio tra il 13 maggio e il 13 giugno del 2016 – ha visto il più elevato numero di interazioni social per contenuti politici, superando testate come la CNN, il Guardian e il Wall Street Journal. Durante lo stesso periodo di tempo il suo più diretto competitor, il liberal Huffington Post, è rimasto indietro di 2 milioni di clic e di condivisioni.
Come sopravvive Breitbart?
Fino ad adesso i risultati politici di Breitbart sono stati più trasparenti e visibili dei suoi risultati economici. Breitbart non divulga alcuna informazione di tipo economico che lo riguarda, ma alcuni esperti valutano che i ricavi pubblicitari non siano bastevoli a sostenere i costi operativi in America e nel Regno Unito. È finanziato da privati, particolarmente Robert Mercer, un miliardario degli hedge-fund e un grande finanziatore della campagna di Donald Trump, che si dice abbia investito 10 milioni di dollari in Breitbart alcuni anni fa. A confronto delle testate online tradizionali i suoi costi sono ridotti: una manciata di giornalisti professionisti, alcuni stagisti e i lettori che riempiono volontariamente le pagine del sito con commenti e insulti.
Le entrate pubblicitarie di Breitbart, per com’è adesso, potrebbero dimostrarsi volatili. I suoi contenuti sono spesso tossici, la sua sezione di commenti è una piattaforma per le teste calde di estrema destra che si scagliano contro l’immigrazione e gli ebrei. Il 29 ottobre Kellogg’s, la multinazionale dei corn flakes, ha annunciato che avrebbe ritirato i propri annunci dal sito. Kellogg’s non è da solo. Allstate, una compagnia di assicurazioni, Warby Parker, che vende occhiali, EarthLink, un provider di connessione e SoFi, un’impresa di tecnofinanza, hanno messo Breitbart nella loro lista nera. Poco dopo BMV, la casa bavarese produttrice di auto e motocicli, sì è unita al boicottaggio. Più Breitbart si radicalizza, più gli investitori pubblicitari si sentono a disagio. Breitbart ha dichiarato che l’uscita di Kellogg’s non ha provocato alcun danno finanziario. In effetti è successo il contrario: da quando il Breitbart ha lanciato l’hashtag “#DumpKelloggs”, invitando i consumatori a condividerlo, le azioni del più noto produttore di corn flakes sono scese un bel po’. La maggioranza degli investitori come Nissan, un costruttore giapponese di auto, ha deciso di rimanere.
Target : destra europea
La decisione di spingersi più a fondo in Europa può apparire una scelta eccentrica per una testata che aborrisce l’idea della globalizzazione. In realtà Breitbart ha una chiara strategia operativa: operare laddove può conquistare una audience facendo leva sui sentimenti anti globalizzazione e anti immigrazione e allineandosi con i partiti di opposizione. Il collegamento a entità politiche esistenti gli dà credibilità e anche gli permette di aggregare comunità online frammentate in una piattaforma organizzativa unica, sottolinea Angelo Carusone, di Media Matters for America, che monitora i media conservatori a Washington, DC.
Nel Regno Unito dove è stato lanciato nel 2014, Breitbart ha sostenuto a gran voce la campagna del UK Independence Party (UKIP) per uscire dall’Unione europea. I brexitari hanno usato i contenuti proposti da Breitbart e il leader dell’UKIP, Nigel Farage, ne è diventato un editorialista. Raheem Kassam, un editor di Breitbart, è divenuto l’aiuto di Farage. Poi è tornato alla testata per prenderne la direzione editoriale e capitalizzare il successo al referendum.
In Francia e Germania, secondo gli osservatori del mondo dei media, ci sono delle circostanze altrettanto mature per lo sbarco di Breitbart. Nel 2017 ci saranno le elezioni politiche in entrambi i paesi e i candidati di estrema destra —Marine Le Pen del Fronte Nazionale in Francia Frauke Petry di Alternativa per la Germania – sperano di fare bene. Breitbart può fare il tifo per questi partiti.
Non è che manca la concorrenza. In Francia, per esempio, stanno nascendo come funghi testate conservatrici come Valeurs actuelles, spinte dalla crescente popolarità della Le Pen, spiega Paul Ackermann, direttore del Huffington Post in Francia. Ma queste realtà non hanno una presenza significativa sulla rete. I sostenitori del Fronte Nazionale, molti dei quali sono giovani, non hanno un sito di riferimento online a cui fare capo e sul quale scambiare le loro idee. Ackermann vede “una porta aperta” per siti come Breitbart. François Godard, un analista dei media, intravede una spaccatura tra i media più importanti del paese e i lettori sempre più orientati verso posizioni populiste. I commenti sui siti di Le Monde e di Le Figaro, prosegue Godard, sono spesso più smorzati rispetto allo standard di Breitbart o a quello dei contenuti dei giornali stessi.
La versione europea di “American First”
In Germania, dove molte testate pencolano a sinistra, il panorama dei media di destra è poco sviluppato, a causa di una sorta di avversione culturale dei tedeschi verso i trascorsi fascisti del paese. Breitbart deve confrontarsi con una legislazione piuttosto severa tesa a colpire l’incitamento all’odio etnico e l’antisemitismo. Junge Freiheit è uno dei pochi giornali conservatori. È cresciuto moltissimo da quando la cancelliera Angela Merkel nel 2015 ha aperto le porte ai migranti. Ma la sua diffusione è ancora sotto le 30mila copie, dovuta probabilmente alla sua flebile presenza online. Breitbart potrebbe mirare a costruire proprio quella, attraendo i consumatori d’informazione di destra all’interno di un’unica piattaforma.
Se Breitbart riesce ad attrarre personaggi ben noti al pubblico locale, così come ha fatto l’Huffington Post, l’impresa potrebbe diventare a portata di mano. Nel Regno Unito, insieme a Kassam, ha reclutato James Delingpole, un giornalista conservatore che scrive per lo Spectator, un periodico di centro-destra con 180 anni di storia. In questo paese le cose stanno andando, infatti, bene: l’audience è cresciuta del 135% su base annua e le pagine viste al mese sono salite a 15 milioni a luglio. Ciò significa che Bretibart ha una capacità superiore allo Spectator di creare contatti e condivisioni. Non male per una testata recentemente definita da un portavoce di Mitt Romney “una manica di coglioni”.
Il business dell’oltraggio e dell’offesa, inaugurato da Rush Limbaugh – conduttore radiofonico e televisivo di talk show – e poi perfezionato da Fox News, può diventare un’altra onnipresente merce americana come i corn flakes della Kellogg’s.