X

Brexit, Johnson alza la posta: ecco tappe e rischi del divorzio

Pixabay

Brexit è alle porte. La vittoria schiacciante dei conservatori alle elezioni anticipate del 12 dicembre ha dato a Boris Johnson la solida maggioranza parlamentare di cui aveva bisogno per portare a compimento il processo di fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europa secondo le sue regole e le sue volontà che potrebbero voler dire hard Brexit.

BREXIT: IN UK RIPARTE L’ITER

Il 16 dicembre il Governo britannico ha confermato che da venerdì 20 dicembre partirà l’iter per la ratifica parlamentare della Withdrawal Bill, la legge sul recesso che comprende l’accordo contratto dal Premier con l’Unione Europea e bocciato da Westminster ad ottobre. Stavolta però i numeri per l’approvazione ci sono e l’intesa sembra essere in cassaforte. Il che significa che la Brexit arriverà entro l’ultima data concordata con il Consiglio Ue: dopo tre anni e mezzo di negoziati e polemiche, il 31 gennaio 2020 il Regno Unito sarà fuori dall’Unione.

BREXIT: UN ANNO DI TRANSIZIONE

Questo però non vuol dire che la questione sarà archiviata. Dal 1°febbraio scatterà la fase di transizione nel corso della quale Londra e Bruxelles dovranno negoziare le future relazioni che intercorreranno tra loro su sicurezza, commercio, cooperazione internazionale e via dicendo. Ci sarà anche una nuova scadenza da rispettare: il periodo di transizione finirà il 31 dicembre e fino a quel momento, anche se formalmente il Regno Unito non farà parte della Ue, sostanzialmente dovrà continuare a rispettare le sue regole senza però aver diritto di voto.

Se dunque giorno dopo giorno si affievoliscono i dubbi sulla data ufficiale della Brexit, parallelamente ne nascono di nuovi. La domanda che tutti si pongono è la seguente: “le due parti in causa riusciranno a stringere accordi tanto importanti e complessi in così poco tempo?” Boris Johnson sembra credere di sì, ma per sicurezza, ha deciso di aggiungere al disegno di legge sulla Brexit un emendamento che rende illegale per il Parlamento l’estensione del processo di transizione oltre la fine del 2020. Lo riferiscono i giornali inglesi che come fonte citano un funzionario governativo. Nel caso in cui questa norma venisse davvero inclusa nel testo, le sue ripercussioni sarebbero enormi. Perché? Perché se in sei mesi Londra e Bruxelles non riusciranno ad accordarsi e a votare su questioni su cui non sono riusciti a trovare un’intesa in tre anni, dal 1°gennaio 2021 la Brexit diventerà automaticamente hard, vanificando tutti gli sforzi fatti dal 2016 ad oggi e realizzando de facto l’incubo no deal. Senza contare che in base ai precedenti (gli accordi Ue con Canada e Giappone sono solo due esempi) per trovare la quadra su questi temi servono anni.

Questi timori, tutt’altro che infondati, stanno influenzando l’andamento di Borse e sterlina, ponendo fine ai forti rialzi realizzati dopo il voto di giovedì scorso.

BREXIT: L’ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO

L’Unione Europea, dal canto suo, fa sapere di voler instaurare dopo il divorzio una “partnership senza precedenti con il Regno Unito”. “Lavoreremo per una forte partnership con il Regno Unito, incluso un commercio libero e equo”, ha spiegato il capo negoziatore Ue, Michel Barnier. Tema centrale dei colloqui sarà infatti la possibilità di concordare un patto di libero scambio in grado di far circolare beni e merci senza imporre quote o dazi di qualsiasi tipo. Downing Street sembra però intenzionata a cominciare le trattative da un punto di partenza molto diverso. Secondo quanto dichiarato da Johnson in campagna elettorale, lo scopo sarà quello di arrivare ad avere standard diversi da quelli previsti da Bruxelles su legislazione fiscale, sociale, alimentare e ambientale.

BREXIT LE QUESTIONI INTERNE: IRLANDA E SCOZIA

I rapporti con l’Unione Europea potrebbero però non essere l’unica questione di cui Boris Johnson dovrà occuparsi. La vittoria schiacciante alle elezioni lo ha reso più forte sulla Brexit, ma presenta anche alcuni risvolti che per il primo Ministro potrebbero essere tutt’altro che facili da affrontare. Il primo riguarda il quasi plebiscito ottenuto dallo Scottish National Party (SNP) in Scozia. Con una campagna elettorale basata sul no alla Brexit e su un nuovo referendum per l’indipendenza di Edimburgo, lo Snp ha conquistato 48 seggi a Westminster, 13 in più rispetto a 2 anni fa. “Gli scozzesi hanno chiesto di scegliere il proprio futuro, hanno detto di non volere un governo dei Conservatori per cui non hanno votato e di non accettare che il proprio paese esca dall’Unione Europea”, ha detto la premier scozzese Nicola Sturgeon subito dopo le elezioni. Una dichiarazione che è già tutto un programma e che preannuncia l’inizio di una lotta tra Londra ed Edimburgo sull’indizione di un nuovo referendum separatista dopo quello (fallito) tenutosi nel 2014.

Da non sottovalutare nemmeno le tensioni in Irlanda del Nord, che negli ultimi tre anni ha rappresentato il vero nodo del contendere nelle trattative con la Ue, un ostacolo superato solo perché Johnson ha accetto di separare de facto l’Irlanda del Nord dal resto del Regno, creando un confine nel mare del Nord. A Belfast Sinn Fein (7 seggi) e Alliance Party (2), partiti repubblicani favorevoli alla riunificazione con l’Irlanda, hanno ottenuto complessivamente più seggi del DUP (8), partito unionista anti-Ue che invece sostiene l’appartenenza al Regno Unito e che fino al 12 dicembre scorso ha tenuto in piedi il Governo conservatore guidato prima da Theresa May e poi da Boris Johnson. Non era mai successo nella storia dell’Irlanda del Nord.

Il nuovo assetto politico nordirlandese rischia dunque di riavvicinare Belfast e Dublino, con buona pace dei conservatori e dell’unione del Regno che potrebbe essere sacrificata sull’altare della Brexit.

Related Post
Categories: Mondo