L’accordo raggiunto sulla Brexit lo scorso dicembre evita di mettere a rischio gli scambi tra il Regno Unito e i 27 paesi UE. Nel 2019 il Regno Unito ha esportato il 43% dei propri beni verso la UE, ed era per questo di gran lunga più vulnerabile nello scenario di un mancato accordo commerciale. Con l’hard Brexit, sulle merci britanniche sarebbero tornati ad essere applicati i dazi previsti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. E rispetto ad altri partner europei, l’Italia sarebbe stata meno esposta: l’anno scorso solo poco più del 5% delle esportazioni era diretto verso Londra. Tuttavia, è stata proprio Roma ad avere il terzo maggiore surplus commerciale (12 miliardi di euro l’anno), in aumento negli ultimi anni, e che oggi rende il Regno Unito il quinto importatore di beni italiani. Tra i settori di punta del Made in Italy, i più esposti a nuovi dazi sarebbero stati meccanica strumentale, tessile, chimica e agroalimentare.
Da gennaio il Regno Unito ha lasciato il mercato unico e l’unione doganale europea: ciò significa che sono subentrate restrizioni alla mobilità delle persone con un sistema di visti già annunciato da tempo da Londra. Il governo inglese avrà inoltre mano libera nell’applicare accordi commerciali con paesi extra-UE, già finalizzati con 29 paesi e regioni del mondo già parte di accordi con Bruxelles, ma alle stesse condizioni di prima e non migliorativi per Londra. Inoltre, UE e UK hanno negoziato un accordo di libero scambio che permetta alle merci inglesi di entrare nel mercato unico europeo senza alcun dazio e vincoli quantitativi, e viceversa (mentre alcuni adempimenti doganali entreranno in vigore con possibili code alle dogane). Quasi del tutto escluso è il settore dei servizi (tra cui quelli finanziari), malgrado questi siano di significativa importanza per Londra. Infine, nell’accordo c’è spazio per la collaborazione in altri campi strategici (come ad esempio la difesa e l’intelligence), che potrà essere estesa e approfondita in futuro. ISPI sottolinea come i tre punti su cui discutevano UE e UK fossero i diritti di pesca, le regole sugli aiuti di stato e la governance dell’accordo.
Il primo tema era stato fortemente politicizzato dai Brexiteers e dallo stesso PM Johnson, che più volte aveva indicato nella presenza dei pescherecci europei nella acque britanniche un affronto alla sovranità del proprio paese. Ma alla fine l’accordo è stato trovato: per i prossimi cinque anni e mezzo i pescherecci europei potranno continuare a pescare nelle acque britanniche anche se via via la quantità di pescato verrà ridotta.
Per quanto riguarda il secondo punto, il level playing field, Bruxelles teme che in futuro Londra possa promuovere delle norme (ad esempio in campo fito-sanitario o ambientale) meno stringenti rispetto a quelle che l’UE impone alle proprie imprese, con il risultato di una concorrenza sleale. Cosa che potrebbe avvenire anche nel caso in cui il Regno Unito riconoscesse alle proprie imprese degli aiuti di stato più generosi rispetto a quelli europei (che devono sottostare alle regole comunitarie): l’accordo prevede che Londra possa sì discostarsi dalla regolamentazione europea, ma non fino al punto di arrecare un danno alla libera e leale concorrenza.
Il terzo punto, la governance dell’accordo, ovvero le procedure che vengono avviate se una delle due parti ritiene che l’altra abbia assunto un comportamento sleale o si rifiuti di rispettare gli accordi. Qui Bruxelles ha ottenuto un meccanismo di arbitrato particolarmente snello e rapido nel caso in cui sorgano delle divergenze future sull’accordo e la possibilità di applicare sanzioni sotto forma di dazi qualora il Regno Unito si discosti dalla leale concorrenza o non rispetti gli accordi (e viceversa).
In ogni caso, per i cittadini europei cambiano le regole per potersi recare nel Regno Unito, in particolare per chi vuole spostarsi per periodi di tempo lunghi, ad esempio per lavoro. Le nuove norme, che entrano in vigore a causa della Brexit e non dell’accordo sui rapporti post-Brexit, prevedono che i cittadini dei 27 paesi UE (assieme a tutti i cittadini del resto del mondo) facciano una richiesta di visto approvata sulla base di un rigoroso sistema a punti: quasi il 40% dipende dall’avere un’offerta di lavoro da un datore britannico, e un altro 18% dal fatto che lo stipendio superi le 25.600 sterline l’anno. Il tutto a un costo piuttosto elevato: tra i 1.300 e i 2.300 euro per domanda. Per maggiori informazioni, consultare la pagina governativa UK Visas and Immigration.