Ancor prima che la Brexit cominci e che le modalità dell’uscita dall’Unione europea siano state definite, molte conseguenze economiche sono già visibili. Da inizio 2016, la sterlina ha perso il 16% del proprio valore contro l’euro e il 12% contro il dollaro, l’inflazione è tornata ben sopra il 2% e comincia a erodere il potere d’acquisto delle famiglie, mentre il mercato immobiliare londinese evidenzia una preoccupante riduzione dei valori e del numero di transazioni. Molte aziende e istituzioni, soprattutto nel campo finanziario, si preparano a trasferire attività e personale sul continente.
Nonostante ciò, da inizio anno i mercati non sembrano essersi concentrati troppo sui rischi inerenti alla Brexit. Forse perché si tratta di un tema noto da oltre due anni, la sterlina e il mercato azionario britannico hanno avuto performance di poco peggiori del resto d’Europa. Anche le stime degli economisti non riflettono scenari particolarmente negativi per il Regno Unito, sottintendendo il conseguimento di un accordo favorevole.
Il dibattito è stato, infatti, concentrato sul raggiungimento di un accordo con l’Unione europea. «Deal or no deal» è stato il dubbio amletico che è riecheggiato sulla stampa anglosassone. L’assenza di un accordo significherebbe la sospensione degli scambi commerciali con la UE con conseguenze pesanti, non solo da un punto di vista economico ma anche da un punto di vista pratico e di approvvigionamento di determinati beni.
Occorre considerare che gli scambi commerciali del Regno Unito con il resto del mondo riguardano per circa la metà l’Unione europea.
Volendo semplificare, il Regno Unito esporta servizi (in particolare servizi finanziari) e importa prodotti. Nonostante le offerte di aiuto di Trump, gli Stati Uniti rappresentano solo un quinto degli scambi commerciali con l’Europa e ancor meno pesa la Cina. Non vi è, quindi, modo di compensare l’impatto derivante dall’uscita dall’Unione europea.
Pochi giorni fa, i media inglesi hanno ripreso alcune affermazioni del Governatore della Bank of England, Mark Carney, il quale ha lanciato un allarme sul mancato raggiungimento di un accordo con la UE, che potrebbe portare a crolli dei valori degli immobili pari al 35%, rialzi dei tassi e una crisi finanziaria comparabile, per il Regno Unito, a quella del 2008.
Ma quale accordo è realistico? Esiste la possibilità di una «soft Brexit»? Ad oggi, anche qualora venisse trovato un accordo, esso non includerebbe i servizi, essenziali per la prosperità della City. Infatti, la UE ha posto come condizione per l’apertura del mercato dei servizi la libera circolazione delle persone, che è stata rifiutata dal Regno Unito. Si stima che circa un terzo del volume di attività della City, che rappresenta oltre il 12% del PIL di Londra e quasi il 3% del Paese, sia riferito alla UE. È difficile fare stime precise in mancanza dei dettagli dell’accordo, ma l’impressione è che Londra e il suo mercato immobiliare non riusciranno a evitare un impatto significativo.
Anche la tempistica resta incerta: la volontà della UE e del governo britannico sarebbe di raggiungere un accordo politico entro novembre, ma la discussione sui dettagli potrebbe richiedere qualche mese in più. Sulla base dei dati economici, che guardano al passato, la sterlina appare sottovalutata e potrebbe parzialmente recuperare se fosse annunciato un accordo favorevole. A lungo termine, però, gli strascichi della Brexit peseranno su tutte le attività britanniche, tranne (forse) il mercato azionario, che vede una forte rappresentanza di multinazionali con ricavi diversificati su tante valute. Lo scenario di medio termine per Londra e per il suo mercato immobiliare è, dunque, molto incerto.