Al cuore del referendum inglese sulla scelta se stare nell’Unione europea o lasciare (Brexit) c’è la questione della sovranità. Molti nel Regno Unito pensano che il processo decisionale dell’Unione abbia indebolito la democrazia parlamentare britannica, e che uscire dall’Unione sia il modo per ristabilirla pienamente. Il principale detonatore, in realtà, sono le ansie crescenti dell’opinione pubblica davanti al fenomeno migratorio, che nella percezione comune minaccia i posti di lavoro, l‘accesso al welfare e anche le identità culturali e sociali a livello locale. Questa posizione sembra ignorare che le cessioni di sovranità sono state decise liberamente dal Regno Unito alla luce dei propri interessi. Non a caso, ne sono esclusi la moneta unica, il sistema di libera circolazione di Schengen e molte specifiche regole del mercato interno – ad esempio in materia di lavoro – nel quale il Regno Unito ha mantenuto il sistema nazionale. La salute, l’istruzione, le pensioni e il sistema assistenziale e la difesa restano nello stretto controllo nazionale, dati gli scarsi poteri in materia dell’Unione. Il bilancio pubblico e la politica economica restano nelle mani del governo britannico.
Il recente negoziato tra il governo britannico e l’Unione europea ha concesso al Regno Unito ulteriori esenzioni, tra le quali quelle di maggior significato politico sono l’esclusione dall’impegno a procedere verso un’Unione “sempre più stretta” e la possibilità di sospendere temporaneamente l’estensione ai migranti, anche dal resto dell’Unione, dei benefici assistenziali “on the job”. Non vi sono neanche dubbi, inoltre, che il Regno Unito abbia goduto di notevoli vantaggi per la partecipazione al mercato interno, essendo risultato una delle economie più dinamiche dell’Unione negli ultimi decenni. È proprio questa la ragione per cui l’investimento diretto dall’estero verso l’Unione europea ha scelto il Regno Unito come mercato di elezione, in quanto capace di offrire insieme un sistema flessibile, ottime istituzioni di mercato e pieno accesso ai mercati continentali. La partecipazione al mercato interno è probabilmente una questione cruciale per determinare il costo dell’uscita. Tra l’altro, in caso di uscita, il Regno Unito verrebbe escluso da tutti gli accordi commerciali firmati in quanto membro dell’Unione, dunque anche da quelli firmati con gli Stati Uniti.
In realtà nessuno può dire come l’uscita potrebbe svolgersi: vale al riguardo l’articolo 50 del TUE che si limita a indicare le procedure per il negoziato e un limite di due anni (peraltro estensibile con l’accordo dell’Unione e del paese membro in uscita) per la completa esclusione del paese richiedente da tutti i meccanismi dell’Unione. Vi sono pochi dubbi, peraltro, che il Regno Unito vorrebbe mantenere l’accesso al mercato interno. L’unica formula probabilmente praticabile sarebbe quella degli accordi di associazione oggi in vigore con la Svizzera e alcuni paesi nordici: la quale implica non solo il pieno rispetto delle regole comuni, senza però poter più contribuire alla loro scrittura, ma anche la partecipazione al bilancio comunitario (almeno per certe spese).
Altra questione cruciale è quella delle conseguenze dell’uscita sulla piazza finanziaria londinese – la City – che a tutti gli effetti opera come mercato di elezione per una parte molto significativa delle transazioni finanziarie dei paesi dell’Europa continentale. Non si può escludere, ad esempio, che l’uscita del Regno Unito possa essere sfruttata dalle organizzazioni di mercato continentali per chiedere di escludere le istituzioni inglesi da certe componenti del processo di intermediazione – ad esempio il clearing delle transazioni in euro.
Vi è un’altra conseguenza, questa politicamente significativa, che potrebbe derivare dall’uscita del Regno Unito dall’Unione, cioè la spinta rinnovata per la Scozia a cercare a sua volta di lasciare il Regno Unito per restare, o ritornare, nell’Unione. Nell’insieme, può darsi che molte previsioni sopravvalutino le conseguenze economiche dell’uscita, per le quali probabilmente un nuovo ‘settlement’ non sarebbe impossibile. Ma certo si aprirebbe per il Regno Unito un lungo periodo di grande incertezza, probabilmente dannoso per l’investimento e la crescita; così come potrebbe derivarne una lunga fase di isolamento politico non proprio foriera di miglior tutela degli interessi britannici nel mondo.
Una questione separata riguarda gli effetti dell’uscita del Regno Unito sull’Unione europea. Questi possono riguardare anzitutto gli effetti di contagio politico, in una fase di grande impopolarità dell’Unione presso l’opinione pubblica. Un referendum riuscito potrebbe diventare il detonatore di altri referendum, in particolare nei paesi in cui i movimenti xenofobi e anti-europei sono più forti. Nello scenario, l’uscita del Regno Unito dall’Unione potrebbe diventare l’inizio di una valanga capace di mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’Unione.
Probabilmente gli altri paesi membri, in particolare quelli con un capitale politico investito più significativo, come la Germania, la Francia, l’Italia, reagirebbero, forse con un balzo in avanti dell’integrazione a livello politico e istituzionale. Tale sviluppo, peraltro, è già reso sempre più necessario anche per il rifiuto dei paesi entrati nel decennio scorso nell’Unione a collaborare all’interno del quadro istituzionale dell’Unione per affrontare adeguatamente la crisi migratoria. La quale sta già producendo, per necessità, un rafforzamento delle istituzioni e delle politiche comuni – per il controllo delle frontiere, le procedure di asilo, la lotta al terrorismo, lo sviluppo delle aree da cui provengono i migranti.
Effetti economici avversi per l’Unione possono anche derivare dal rafforzamento delle tendenze dirigiste e protezioniste tra i paesi restanti, tendenze contro le quali il regno Unito ha rappresentato un antidoto importante. Un danno deriverebbe anche dalla perdita, all’interno delle istituzioni e del decision making europeo, della formidabile cultura amministrativa britannica, fonte continua negli anni passati di utili stimoli per le politiche di semplificazione e di miglioramento gestionali dei settori pubblici.
Insomma, a me pare che l’uscita del Regno Unito sarebbe male per tutti. Non riesco a capire quelli che gioiscono, pensando che ora sarà più facile fare quel che non abbiamo fatto prima per rafforzare le istituzioni comuni. Il Trattato di Lisbona ci consente di avanzare senza il Regno Unito sul fronte dell’unità politica, se non lo abbiamo fatto abbiamo solo noi stessi da biasimare.