Fra le grandi manovre innescate dalla Brexit, c’è anche la corsa degli altri 27 Paesi per accaparrarsi i ruoli ricoperti dai britannici nelle istituzioni europee.
A ben vedere, le poltrone in gioco non sono moltissime: in tutto, sui 30.008 lavoratori della Commissione europea i britannici sono 1.128 (il 3,8%), mentre al Consiglio Ue sono 83 su 3mila (il 2,76%) e all’Europarlamento 288 su 7.597 (il 3,79%), con 73 deputati e tre presidenti di commissione. Era britannico anche il commissario ai servizi finanziari dell’Ue, Lord Jonathan Hill, che però si è già dimesso passando l’incarico al vicepresidente dell’Esecutivo comunitario, il lettone Valdis Dombrovskis.
Ma più che il numero degli incarichi, ciò che conta è il loro peso specifico. I britannici lasceranno sguarnite delle caselle di primaria importanza e tre posizioni spiccano sulle altre: quelle ricoperte da Lawri Evans (direttrice generale del Mercato interno, industria, imprenditoria e Pmi), Stephen Quest (direttore generale per la Tassazione e l’unione doganale) e Patrick Anthony Child (vicedirettore generale per la ricerca e l’innovazione).
La presenza britannica è poi particolarmente forte negli uffici dell’Alto rappresentante per la politica estera (su 130 britannici, 25 sono British), un ruolo affidato all’inglese Catherine Ashton fra il 2009 e il 2014 e oggi ricoperto dall’italiana Federica Mogherini.
Il contingente britannico a Bruxelles conta poi tre direttori generali (crescita, fiscalità e task force Brexit) e due portavoce dell’ufficio stampa (migrazione e servizi finanziari) nelle fila della Commissione, oltre a due direttori generali su otto nelle stanze del Consiglio Ue.