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Brasile, nuova grana per Lula: il crac di Lojas Americanas, la Walmart brasiliana che ricorda il caso Parmalat

Sito Lojas Americanas

Non bastavano a Lula il tentato golpe di Brasilia e nemmeno il caso Petrobras, il gioiello di famiglia che da qualche settimana tiene in ansia azionisti e opinione pubblica. Ad agitare ulteriormente le acque, mettendo a rischio gli investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori e la tenuta stessa delle banche, visto l’effetto domino che potrebbe innescarsi sul sistema creditizio, è da qualche giorno esploso il caso Lojas Americanas.

La grande catena di negozi, una sorta di Walmart brasiliana che dà lavoro a oltre 40mila persone e fattura a pieno regime quasi 19 miliardi di reais (circa 4 miliardi di euro), ha improvvisamente scoperto un buco di 43 miliardi di reais (circa 8 miliardi di euro): il CEO Sergio Rial, in passato presidente e Ad di Santander Brasil, lo ha comunicato al mercato l’11 gennaio scorso e si è immediatamente dimesso, dopo appena 10 giorni dall’inizio del suo mandato. Al suo posto il Cda ha nominato Joao Guerra Duarte come CEO ad interim, mentre l’azienda è finita venerdì scorso in amministrazione controllata per decisione del Tribunale di Rio, dopo aver perso praticamente tutto il suo valore in Borsa: le azioni sono crollate di oltre il 90% in pochi giorni e ora valgono solo 70 centesimi di reais. Lo scorso ottobre, al picco del 2022, valevano 21 reais.

Di punto in bianco un titolo apparentemente solido come quello di Lojas Americanas è dunque diventato un penny stock: vale meno di un KitKat, fa notare la stampa brasiliana, ricordando che la famosa barretta di cioccolato è un simbolo della popolare catena di negozi, essendo venduta ad un prezzo particolarmente scontato. Ma che cosa è successo e perché è così preoccupante? Intanto, la comunità finanziaria è certa: questo caso è più pesante di quello di Oi, la tlc poi venduta nel 2020 a Tim, Claro e Telefonica Brasil, soprattutto perché non si conoscono ancora le ragioni del buco, arrivato come un fulmine a ciel sereno, tant’è vero che il rating di Standard&Poor’s è repentinamente passato dalla valutazione migliore (AAA) a quella peggiore (D, cioè default).

Questo caso ricorda piuttosto il crac Parmalat in Italia, con migliaia di piccoli investitori che vennero irrimediabilmente beffati: nel caso di Lojas Americanas circa metà del debito monstre è nei confronti di 8 mila tra imprese (anche grandi gruppi come Google, Apple, Amazon e Nestlé) e appunto persone fisiche mentre il resto, circa 20 miliardi di reais, è in pancia alle banche. Tutte le maggiori banche del Paese (e anche alcune straniere, come Deutsche Bank) sono coinvolte in questa vicenda, e ora dovranno fare accantonamenti nei bilanci in attesa che la restituzione del debito venga negoziata (l’azienda si è affidata a Rothschild & Co, così come avvenne per Oi), con inevitabili ripercussioni sulla possibilità di erogare credito, e non solo.

La banca più esposta è Bradesco con 4,7 miliardi, poi Santander con 3,7 e Itaù con 3,4. Alcune di queste banche sono anche a capitale pubblico ed ecco un’altra grana per Lula, quantificabile in circa 7 miliardi di reais: questa è la cifra che potrebbe costare alle già fragili casse dello Stato il collasso di Americanas. Intralciando ulteriormente il lavoro del nuovo governo, che deve già gestire la spina nel fianco di Petrobras oltre che tranquillizzare i mercati sul fronte delle privatizzazioni e delle riforme. Una di queste, quella fiscale, era stata promessa da Lula ma si sta rendendo sempre più difficile: per abolire l’equivalente brasiliana dell’Irpef per chi guadagna fino a 5.000 reais al mese (per dare un parametro, il salario minimo è di 1.300 reais), servono 100 miliardi di reais, in un momento in cui il crac di Americanas potrebbe far esplodere una bolla, mettendo a rischio decine di migliaia di dipendenti.

L’intrigo però è anche internazionale: gli azionisti di maggioranza di Lojas Americanas sono i magnati brasiliani Jorge Paulo Lemann, Beto Sicupira e Marcel Telles, un trio di vecchie volpi della finanza che attraverso il loro fondo 3G Capital hanno costruito nei decenni un impero del Food&Beverage. Prima fondando Ambev, il più grande produttore di birra del Sudamerica, poi comprando Burger King ma soprattutto, dal 2013, entrando ufficialmente in affari con Warren Buffett nel dare vita a Kraft-Heinz, il colosso alimentare del quale i tre sono i secondi maggiori soci con l’8% del capitale, dietro proprio alla Berkshire Hathaway del finanziere americano, che ne detiene il 26,6%. Non a caso, lo scorso 18 gennaio Kraft-Heinz, quotata all’S&P di New York, ha perso in una sola seduta il 6%.

La vicenda è parecchio intricata: ora l’amministrazione controllata avrà come primo obiettivo quello di mantenere l’azienda in vita, salvaguardando la forza lavoro ma allo stesso tempo convincendo i creditori, ad incominciare dalla banche che hanno fatto pressione per accelerare i tempi e fermare l’emorragia. Sarà nel loro interesse, e di quello di migliaia di piccoli risparmiatori, consentire all’azienda di rimanere in qualche modo in piedi, rinunciando a una parte dei soldi. Ma se così non dovesse andare, Lojas Americanas – che ha dichiarato di aver attualmente in cassa solo 800 milioni di reais – verrebbe dichiarata fallita e sul Brasile si abbatterebbe un’altra bomba sociale.

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