Il dado è (quasi) tratto. La scorsa settimana il Tribunale superiore elettorale di Brasilia ha registrato ufficialmente le liste dei candidati alle prossime elezioni presidenziali, il cui primo turno è in programma il 7 ottobre. L’attenzione era tutta su Lula, che è da mesi in testa nei sondaggi e come più volte promesso si è candidato, nonostante sia tuttora detenuto nel carcere di Curitiba dove deve scontare una condanna (definitiva) a 12 anni per corruzione passiva e riciclaggio. L’ex presidente e storico leader del partito dei lavoratori ha avuto il via libera addirittura dal comitato dell’Onu per i diritti umani, che ha esortato le istituzioni del Brasile a lasciare partecipare Lula alla corsa presidenziale, nonostante le sue vicende giudiziarie. L’Onu chiede di “non impedirgli di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018, fino a quando i suoi ricorsi dinanzi ai tribunali non saranno stati portati a termine in un giusto procedimento giudiziario”.
Secondo la legge brasiliana, i candidati con una condanna confermata non possono rimanere in carica per otto anni, ma una condanna non impedisce loro di condurre una campagna elettorale. Quindi in attesa dei ricorsi, Lula è regolarmente in corsa e la sua vicenda con le dovute proporzioni ricorda quella di Silvio Berlusconi, che alle ultime elezioni ha fatto la campagna elettorale pur se in attesa dell’esito di un ricorso sulla sua eleggibilità. Il Tribunale Supremo Elettorale, che per ora ha accettato la candidatura, ha tempo fino al 17 settembre per valutare la posizione di Lula: in quella data il politico 72enne potrebbe essere escluso, ma l’eventuale decisione sarà ancora una volta impugnabile presso la Corte Suprema brasiliana.
Intanto, la campagna elettorale è partita, e secondo molti osservatori questo sarà il voto più incerto da quando c’è la democrazia in Brasile. Non solo per i dubbi sulla eleggibilità di Lula, ma anche perchè i candidati alla carica presidenziale sono ben 13 e se nessuno di loro – come prevedibile – raggiungerà il 50% al primo turno, si andrà a un incertissimo ballottaggio. I sondaggi danno Lula in testa con circa il 20%, anche se il partito più grande è quello degli indecisi e dei possibili astenuti: pare che ad oggi quasi un brasiliano su tre, il 30%, non abbia idea per chi votare. Se il presidente degli anni d’oro del Brasile è in vantaggio (ma potrebbe dover desistere), salgono anche le quotazioni di Jair Bolsonaro, il “Salvini brasiliano”, 63enne ex generale dell’esercito, paulista, accreditato del 17% di consensi. Se Lula dovesse arrendersi, Bolsonaro diventerebbe addirittura il favorito.
In buona posizione c’è anche l’ecologista Marina Silva, originaria dell’Amazzonia e sconfitta da Dilma Rousseff alle elezioni del 2010. Silva ha 60 anni, ha origini molto umili (è un’ex analfabeta) e pur essendo evangelica si dichiara a favore dei matrimoni gay e non contraria alla legalizzazione dell’aborto. I sondaggi la danno al 10% (che diventa 15% senza Lula), anche se su di lei, progressista e in passato punto di riferimento di un elettorato orientato a sinistra, pesano il sostegno dato al candidato della destra Aecio Neves nel 2014 e il fatto di aver votato a favore dell’impeachment per Dilma nel 2016. Subito dietro di lei c’è l’ex governatore dello stato di San Paolo, Geraldo Alckmin, considerato il candidato dell’establishment e accreditato di un 7-9% di consensi.
Al 6% nei sondaggi c’è Ciro Gomes, ex esponente del partito dei lavoratori e già ministro con Lula: è considerato l’eventuale “riserva” di Lula, tant’è vero che le sue quotazioni, in caso di non candidabilità del leader storico, raddoppierebbero al 12%. A sinistra sta emergendo anche Guilherme Boulos, giovane leader del partito socialismo e libertà: il 36enne paulista è anche noto per il suo impegno nel Movimento dos Trabalhadores Sem Teto, il movimento dei lavoratori senza tetto. E’ stato arrestato più volte, per episodi di disobbedienza civile e per incitamento alla violenza, ma sempre rilasciato e scagionato dalle accuse.