Quello che molti hanno sempre pensato, compreso il diretto interessato, che si è sempre proclamato innocente, potrebbe essere verità: secondo The Intercept, il sito di notizie fondato da Glenn Greenwald (già collaboratore di Edward Snowden), a incastrare l’ex presidente del Brasile Lula, costringendolo al carcere per corruzione e facendolo fuori dalle elezioni presidenziali del 2018 (che avrebbe con ogni probabilità vinto) fu un complotto. Ordito dall’uomo sui quali si sono sempre concentrati i maggiori sospetti, il giudice Sergio Moro, il “Di Pietro brasiliano”, l’arbitro della maxi inchiesta Lava Jato che ha fatto fuori mezza classe politica verdeoro partendo dallo scandalo Petrobras, e oggi – a questo punto non casualmente – superministro della Giustizia del governo Bolsonaro.
Le prove portate da Greenwald sembrerebbero inequivocabili: sul sito viene pubblicata parte di una mole di documenti riservati, mail, discussioni in chat private, foto, filmati, in cui Moro e altri procuratori si confrontano per fare in modo che Luis Inacio Lula da Silva finisse in carcere e non potesse, di conseguenza, candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018. Tra le altre cose, in una conversazione Moro afferma privatamente insieme ad altri magistrati di avere “dubbi circa gli indizi per stabilire la colpevolezza di Lula”. The Intercept definisce quelli del giudice della Mani Pulite brasiliana “una serie di comportamenti non etici e inganni sistematici”. Lula è stato condannato a 12 anni per corruzione, ma il vero obiettivo era tenerlo fuori dalla competizione elettorale, tant’è vero che nonostante la detenzione l’ex presidente era intenzionato a candidarsi ed era ampiamente in vantaggio nei sondaggi, fino alla decisione della Corte Suprema di escluderlo dalla corsa.
E secondo quanto emerge dal materiale, al presidente fu impedito dagli ambienti giudiziari persino di rilasciare un’intervista al quotidiano Folha De Sao Paulo dal carcere, durante la campagna elettorale, sebbene uno stesso giudice della Corte suprema di giustizia, Lewandosky, l’avesse inizialmente autorizzata. Quest’intervista, autorizzata a settembre dell’anno scorso, però non s’aveva però da fare. Almeno non subito, e infatti sarà realizzata solo un mese fa, a maggio, a giochi ampiamente fatti. Secondo le trascrizioni del The Intercept, i giudici alla notizia della possibile intervista a Lula entrano in stato di agitazione, si confrontano tra di loro lungamente, cercando di studiare una strategia che impedisca l’intervista. Sono indignati, parlano di “circo” (giudice Laura Tessler), lanciano accuse di “mafiosi” (giudice Athayde Ribeiro Costa). Convengono che un appello contro la decisione di Lewandowski avrebbe zero possibilità ed esporrebbe i giudici all’accusa di voler impedire che Lula parli per motivi essenzialmente politici.
Nel frattempo, su un’altra chat, Deltan Dallagnol, a capo della task force del processo Lava Jato contro Lula, parla con un altro giudice, che non lavora al caso Lula. Esprimono preoccupazione per una possibile elezione di Haddad, il candidato del PT che ha sostituito l’incandidabile Lula. “Sono molto preoccupata del possibile ritorno del PT e ho spesso pregato Dio affinché illumini il nostro popolo e ci dia un miracolo che ci salvi”, afferma Carol. “Sono con te, Carol! Prega dunque. Ne abbiamo bisogno come paese.”, così risponde Dallagnol. Rispostandoci sull’altra chat, quella degli accusatori di Lula, Januàrio Paludio, suggerisce un “Piano B”, considerata l’impossibilità di bloccare l’intervista: “Dare a tutti [i giornalisti] la possibilità di intervistare [Lula] nello stesso giorno. Sarà caotico, riducendo così la possibilità che l’intervista sia diretta”.
“Siamo di fronte al più grande scandalo della storia” del Brasile, ha immediatamente commentato su Twitter Fernando Haddad, che potrebbe avere ragione se verranno confermati i dettagli delle conversazioni emerse, come quella che fa dubitare il procuratore capo Deltan Dallagnol, di due “elementi chiave nell’inchiesta su Lula: se l’appartamento avuto come tangente sia effettivamente suo e se lui stesso abbia davvero qualcosa a che fare con lo scandalo Petrobras”.
Nell’occhio del ciclone comunque finisce soprattutto Sergio Moro, che a parole è stato per ora confermato da Bolsonaro come ministro, ma la polemica è già divampata. Dai documenti di Greenwald emerge che l’arbitro del processo Lava Jato in cui era imputato Lula offriva consigli all’accusa. A Dallagnol, ad esempio, suggeriva di “invertire l’ordine delle due fasi pianificate [mandato d’arresto e interrogatori]”. In risposta a un comunicato del PT sul processo Lava Jato, chiede, sempre a Dallagnol: “Cosa pensi del folle comunicato del PT? Dobbiamo controbattere?”, utilizzando un “noi” che fa venir meno la separazione che secondo il sistema giudiziario brasiliano dovrebbe esserci tra accusa e giudice. In altre conversazioni Moro fornisce a Dallagnol informazioni importanti ai fini di impostare la strategia dell’accusa.
Informazioni confidenziali che minano ancora una volta la sua terzietà. Eppure, in ogni dichiarazione pubblica Moro aveva allontanato da sé qualsiasi accusa e sospetto, dicendosi anzi indignato per il fatto che qualcuno potesse mettere in dubbio la sua imparzialità. Ancora oggi, il ministro della Giustizia, la cui credibilità potrebbe essere per sempre minata, si difende così su Twitter: “Un’attenta lettura del materiale rivela che non ha nulla di sensazionale”.