La tiepida e soporifera Goldilocks se ne va. La bambina dai riccioli d’oro, che per otto anni ha rifiutato le due tazzine dell’inflazione troppo calda e dell’inflazione troppo fredda e ha continuato a preferire il piattino di crescita mediocre a quello della stagnazione e a quello ipercalorico del boom, è stata in realtà mandata a casa dagli elettori d’Occidente. Questi elettori, che avevano sopportato con grande pazienza i primi anni grami successivi alla crisi del 2008, a un certo punto si sono stancati di aspettare e hanno iniziato a chiedere meno prediche sulla stagnazione secolare e l’austerità e più crescita.
Hanno cioè sopportato salassi e purghe in nome dell’austerità quando avrebbero dovuto esigere ricostituenti ed energizzanti e hanno cominciato ad alzare la voce e incollerirsi quando in realtà le cose cominciavano davvero ad andare un po’ meglio. Il corpo sociale reagisce sempre con tempi ritardati rispetto a quelli rilevati dai sismografi degli economisti (i politici stanno a metà strada). Non lo fa perché è stupido, ma perché le conseguenze del ciclo economico gli arrivano addosso dopo mesi o anni. Cominciano magari a calare gli ordini e l’economista capisce subito che il ciclo è finito, ma la fabbrica continua a lavorare come prima, accumulando lentamente l’invenduto in magazzino.
Poi, a magazzino pieno, taglia la produzione, ma non i posti di lavoro. E se le cose continuano a peggiorare brucia la liquidità in cassa e poi chiede un prestito alla banca. Quando anche questo non è più sufficiente entrano in azione gli ammortizzatori sociali, dai sussidi di disoccupazione a quei tristi espedienti utilizzati in America nei primi anni del dopocrisi, dall’esplosione dei sussidi d’invalidità alla somministrazione ai licenziati (da parte della sanità sia pubblica sia privata) di farmaci a base di oppiacei, con il bel risultato di due milioni di nuove dipendenze proprio tra gli uomini in età lavorativa, il nucleo centrale della forza lavoro.
Il contrario avviene quando le cose migliorano. Iniziano a crescere gli ordini, ma la fabbrica li soddisfa svuotando lentamente il magazzino. Poi aumenta sì la produzione, ma nessuno viene assunto, perché si ricorre prima agli straordinari, poi a personale interinale. Poi si dà all’esterno una parte dell’attività, ma l’outsourcing è affidato tipicamente a personale precario. Questo, anche se temporaneamente lavora, non raggiunge la sicurezza psicologica che gli consente di indebitarsi per comprare una macchina o una casa e, anche se la raggiunge, è la banca a non fargli credito perché non ha un impiego stabile.
Il passo successivo è la rinuncia da parte della fabbrica a raccogliere ordini aggiuntivi, nell’ipotesi che si tratti di un fenomeno passeggero. Se dopo qualche mese la domanda si mantiene elevata ci si rassegna ad assumere, ma senza transigere sulle qualifiche richieste, Poi si inizia a transigere, ma magari non si trova lo stesso quello che si cerca. Alla fine si inizia ad offrire di più ed è in quel momento che inizia l’inflazione salariale, soprattutto se la produttività non corre in soccorso.
Oggi il mondo è governato da banche centrali che hanno il terrore di rivivere un’esperienza di recessione (anche perché non saprebbero che cosa fare, soprattutto in Europa, se non giapponesizzarsi completamente e monetizzare a vita i disavanzi pubblici) e che se anche hanno qualche intenzione di normalizzare la politica monetaria sono tenute a freno dai politici della nuova generazione, quelli eletti negli ultimi anni con il mandato di crescere a tutti i costi.
E se il mondo vuole crescere a tutti i costi, allora crescerà a tutti i costi. Dopo avere superato i tabù monetari nella fase Goldilocks, supereremo in allegria (per ora) i tabù fiscali. La riforma fiscale repubblicana, dopo un anno di faticosa gestazione, immette nell’economia 150 miliardi l’anno e attira dure critiche democratiche per il buco di bilancio che va a creare. Poi cosa fanno democratici e repubblicani insieme, dietro le quinte e in pochi giorni? Varano un bilancio per i prossimi due anni che provoca un ulteriore buco di 400 miliardi, 200 all’anno, che va ad aggiungersi all’altro. Nessuno protesta, se non il solito Rand Paul. Una volta che si è imparato a farlo, spendere diventa sempre più facile. Benvenuti in Adventureland, la terra degli esperimenti in cui si prova a vedere cosa succede provando a gettare benzina fiscale in un contesto di pieno impiego.
Crescere a tutti i costi, tuttavia, significa appunto che ci sono dei costi. L’inflazione americana anno su anno sarà in dicembre molto vicina al tre per cento. C’è molto effetto base, ma non sarà un bel vedere. In questi giorni si è spesso ripetuto che il rialzo dei rendimenti (ovvero il ribasso dei corsi) obbligazionari non è dovuto a un’aspettativa di maggiore inflazione ma a una richiesta di un maggiore tasso reale. Poi, dopo giornate spese a consolarci in questo modo, sono arrivati dati sull’inflazione reale a loro volta in forte crescita. C’è dunque una doppia pressione, sull’inflazione da una parte e sui premi per il rischio di durata e di credito dall’altra. Questa pressione, per il momento, ha riallineato a sufficienza verso il basso i corsi obbligazionari, ma altri riallineamenti avverranno nei prossimi due anni se non ci saranno recessioni o crash di borsa.
Il passaggio da Goldilocks ai fuochi d’artificio comporta la separazione dei destini dei bond da quelli dell’azionario.
Sotto Goldilocks entrambi sono andati bene, nel nuovo regime l’azionario andrà meglio dei bond. Questo non significa, attenzione, che l’azionario salirà per forza perché l’abbassamento dei multipli dovuto al rialzo dei tassi disferà di notte quello che gli utili in crescita avranno tessuto di giorno. Per dirla meglio, l’azionario tenderà
a salire nei momenti in cui l’obbligazionario resterà tranquillo, ma dovrà poi tornare a ritracciare nelle fasi di malessere di quest’ultimo.
Adattare all’Europa questo scenario è complicato. Il rialzo dell’euro frenerà l’inflazione, che resterà un fenomeno esclusivamente tedesco (finalmente arriva la rivalutazione interna in Germania), ma i rendimenti dei bond europei saliranno comunque, anche se molto meno che in America, per effetto di un aumento del premio per il rischio globale e per il venir meno degli acquisti della Bce fra sei mesi. Le borse europee, dal canto loro, avranno a che fare con un euro forte che rema contro e con utili in crescita più bassa anche in America, ma avranno il sostegno di una minore concorrenza da parte dei bond. Nel complesso, non siamo tra quelli che continuano a favorire l’Europa perché ha multipli più bassi.
L’Europa avrà sempre multipli più bassi dell’America finché si tratterà di paragonare un produttore di auto europeo con un tecnologico americano o una fragile banca europea con una solida banca americana. Venendo al breve termine, la tempesta dei giorni scorsi è stata riassorbita e tutto ha raggiunto un livello almeno temporaneo di equilibrio. La correzione ha indotto tutti a essere un po’ più prudenti, ma non ha provocato una vera paura ed è stata superata con fin troppa scioltezza. Questo significa che ce ne saranno altre nei prossimi mesi, forse meno fulminanti ma comunque fastidiose. In attesa di un nuovo episodio l’azionario continuerà a recuperare, ma più lentamente.
L’aumento di volatilità che si può intravvedere non è quello della volatilità spicciola giorno per giorno, ma quello di ondate di repricing distanziate di settimane o mesi una dall’altra. Restiamo positivi sull’azionario, ma pensiamo ancora più di prima che per godere davvero di quello che il bull market ci può ancora dare sarà meglio mantenere posizioni strutturalmente più piccole rispetto a quelle degli anni scorsi.