Ci sono due modi di guardare al 2018 e di affrontarlo sui mercati. Il primo è il Ballo Excelsior, la narrazione compiaciuta delle magnifiche sorti e progressive di un mondo che ha ripreso a crescere forte e senza inflazione. Nonostante questo dispiegamento trionfale delle forze produttive i governi e le banche centrali, che da manuale dovrebbero già avere iniziato a riportare in cucina e in cantina le bevande alcoliche che erano servite a riscaldare l’atmosfera, possono continuare (proprio perché non c’è inflazione) a distribuire impunemente cocktail fiscali espansivi e champagne monetario euforizzante.
Da qui la sensazione di un 2018 destinato a replicare il 2017, con bond stabili, spread di credito in ulteriore compressione, profitti in crescita, multipli azionari ancora in espansione e borse che conquistano con sicurezza nuovi livelli mai visti e sempre più alti.
Il secondo modo di guardare al 2018 è la risalita del fiume nella foresta, il Congo di Conrad, il Mekong di Coppola, l’Orinoco dell’Aguirre di Herzog. La natura è lussureggiante e oscenamente ricca, basta tendere la mano per avere tutto quello che si vuole, ma è anche piena di insidie, di fruscii, di sussurri tanto inquietanti quanto i silenzi improvvisi. E nel cuore dei naviganti si allontana lentamente il ricordo del mondo sicuro alle spalle e crescono l’ansia, la paura dell’ignoto, il senso di solitudine e la consapevolezza di una fine del viaggio che, per quanto lontana, sarà inevitabilmente drammatica.
Del prevalere della prima narrazione abbiamo avuto un esempio nei primi giorni di questo nuovo anno, quando un senso di euforia, per la prima volta da più di dieci anni, si è impadronito dei mercati e ha contagiato anche menti che abbiamo imparato a conoscere come sobrie ed equilibrate. E così, tra una sorpresa macro positiva e l’altra, abbiamo sentito gestori di solida osservanza value come Buffett o Tepper asserire che il mercato non è sopravvalutato come appare e che, calcolando gli utili previsti comunque in crescita e il taglio delle imposte, non è più caro, in termini di valore, rispetto a un anno fa a quest’epoca.
La seconda narrazione ha invece influenzato le ultime sedute, quando i mercati hanno smesso di usare gli occhi per guardare ai fatti reali e hanno iniziato a tendere le orecchie verso i fruscii e i sussurri provenienti dalla foresta. Pare che la Cina voglia ridurre gli acquisti di Treasuries. Pare che Trump stia per uscire unilateralmente dal Nafta. Pare anche che sia matto. Pare che sia in preparazione una richiesta di impeachment basata sul XXV emendamento (incapacità fisica o mentale). Pare che il grande inquisitore Mueller abbia in mano materiale sufficiente a fare precipitare le cose e si appresti a interrogare Trump.
Pare che la Merkel, cento giorni dopo il voto, stia incontrando ostacoli più seri di quello che si pensava nel formare un governo con la Spd. Pare che la Bce voglia indurire la guidance sui tassi già nei prossimi mesi.
E se la Cina compra meno Treasuries i tassi salgono. E se i tassi salgono i multipli azionari si contraggono e le borse scendono. E se si scioglie il Nafta Canada e Messico vanno in recessione, in Messico diventa presidente l’estremista Obrador, le multinazionali scappano a nord del Rio Grande, dove i costi di produzione sono molto più alti, così l’inflazione sale e i profitti scendono. E se Trump viene messo sotto scacco e Washington diventa ingovernabile, la fiducia creata dalla riforma fiscale si dissolve in un attimo.
E se la Merkel non ce la fa e si ritorna alle urne rischia di saltare il piano di Macron per l’Europa, che ha tempi stretti e va realizzato prima delle elezioni europee del 2019. E però la Cina smentisce l’intenzione di comprare meno Treasuries (va bene mandare avvertimenti a Trump, ma perché farsi del male e fare scendere di valore i due trilioni di riserve cinesi investiti in governativi americani?). E se Trump dovesse annunciare il ritiro americano dal Nafta dovrebbe poi farlo approvare dal Congresso (difficile) e aspettare comunque sei mesi per renderlo esecutivo.
Sei mesi durante i quali le trattative continuerebbero fino a una molto probabile revisione del trattato, che è il vero obiettivo di Trump. Quanto all’Europa, il teatro della politica tedesco si prenderà ancora qualche settimana, ma alla fine, quasi sicuramente, avremo un governo che partirà spedito. E per quanto riguarda la Bce, si farà qualche acrobazia linguistica, come a Sintra nel luglio scorso, per dire che si prende atto della crescita forte e migliore del previsto, ma non si cambierà il programma stabilito sul Qe (al massimo verrà indicata come meno probabile la coda dell’ultimo trimestre ipotizzata da Draghi).
Il punto è uno e uno soltanto, l’inflazione. Finché non sale, la normalizzazione sarà lenta e non consisterà in un ripristino dei tassi reali positivi. Si permetterà al massimo che i tassi reali risalgano verso lo zero. Si è molto parlato, nell’ultimo periodo, di un’inflazione che sale in modo strisciante e qua e là si è anche visto qualcosa. Onestamente, però, è ancora troppo poco.
Si nota anche, in tutte le indagini presso le imprese in America, Germania e Giappone, una difficoltà crescente a trovare personale. Al tempo stesso, tuttavia, si nota che le imprese non rincorrono i candidati offrendo loro retribuzioni più alte e cercano di arrangiarsi con il personale che hanno a disposizione o, eventualmente, con l’automazione e l’aumento della produttività. Siamo d’accordo, l’acqua è sempre più calda, ma il livello di ebollizione, l’inflazione conclamata, continua a non essere raggiunto. E d’altra parte prevenire, alzando i tassi in anticipo su quanto già annunciato, rischia di fare scendere il livello degli asset finanziari e di raffreddare il clima di fiducia troppo presto.
Il 2018, insomma, si profila a doppia narrazione. Da una parte i dati reali, molto buoni fino a prova contraria, dall’altra l’ascolto ansioso di qualsiasi fruscio possa somigliare anche lontanamente a una prova contraria. Ne conseguono un aumento graduale della volatilità (il passaggio da una narrazione all’altra e viceversa), un possibile lento aumento dei tassi reali, dell’inflazione attesa nel lungo termine e del term premium nei bond e un possibile arresto (e accenno di inversione di tendenza) nel processo di espansione dei multipli azionari. Il tutto unito a un modesto ulteriore deprezzamento del dollaro. Non ne consegue, per contro, nessun ribasso generalizzato, significativo o duraturo degli asset finanziari, almeno per quest’anno o finché davvero non si manifesti l’inflazione