L’inquietante apertura della Borsa e le aste del Tesoro per Bot e Btp tengono l’Italia col fiato sospeso in questa settimana che comincia dopo il tracollo di venerdì sui mercati per effetto del ciclone Stark e che sembra riservarci altre giornate di passione. Le aste dei titoli di Stato come la Borsa sono un termometro della fiducia che un Paese riscuote sui mercati e di questi tempi basterebbe guardare allo spread tra Btp e Bund per avvertire che la credibilità dell’Italia è ai minimi storici.
Non bastano le manovre per recuperare fiducia: più che alla riduzione del deficit pubblico i mercati guardano ad altri due indicatori su cui l’Italia non ha le carte in regola: il debito – che, come ricordava Giorgio La Malfa (FIRSTonline del 6 settembre), dovrebbe essere l’obiettivo centrale della strategia di risanamento ma finora non lo è stato- e la crescita, mai così dimenticata come di questi tempi. Sulla montagna di debito pubblico che pesa sulle spalle degli italiani e soprattutto delle nuove generazioni prima o poi bisognerà decidersi: o c’è un colpo d’ascia che abbatta lo stock del debito in modo rapido e visibile o non recupereremo tanto facilmente la fiducia sui mercati.
In effetti, una delle novità per così dire culturali che sta rivelando questa crisi è che, di fronte alla casa che brucia, anche tra i ceti medi e medio-alti affiora la consapevolezza che sarà difficile rinunciare a un’imposta patrimoniale per aggredire realmente il debito. Se all’inizio della legislatura il Governo non avesse colpevolmente abolito l’Ici per la prima cosa, buona parte del gioco sarebbe già fatto. Ma anche immaginando una patrimoniale leggera dell’uno per mille sulla ricchezza netta delle famiglie – come aveva suggerito per tempo l’Assonime – il gettito oscillerebbe attorno a 9 miliardi di euro, che non è poco, anche se non basta per abbassare sensibilmente il debito.
Si può discutere se la patrimoniale debba riguardare solo gli immobili o anche i valori mobiliari, ma se si dovesse decidere di imboccare questa strada l’importante non è scatenare inutili guerre sante sui principi ma rendere l’imposta equa, tecnicamente gestibile e utile per la collettività. Gli italiani non vivono sulla luna e sono pronti a fare sacrifici, a condizione che servano e che gli obiettivi siano chiari. Però bisogna evitare le illusioni fin dalle origini: quand’anche si decidesse di arrivare alla patrimoniale, non è che l’emergenza-debito si dissolverebbe per incanto. Senza una gestione virtuosa del bilancio pubblico, anno per anno, e senza una robusta dose di privatizzazioni, di liberalizzazioni e di semplificazioni burocratiche il cavallo dell’economia non beve e senza crescita è impossibile ridurre stabilmente il debito.
Basta vedere che cosa successe dopo la coraggiosa cura di cavallo del governo Amato agli inizi degli anni ’90: la patrimoniale diede una mano alle casse dello Stato ma il debito pubblico continuò subito dopo a galoppare. Il professor Filippo Cavazzuti, che fu il braccio destro di Ciampi al Tesoro, ha calcolato – proprio su FIRSTonline (31 agosto scorso) – che occorrono almeno sei anni di gestione del bilancio pubblico in attivo e l’immediata adozione delle cosiddette riforme che non costano per abbassare il debito pubblico sotto la soglia psicologica del 100% del Pil. Un’operazione che sicuramente equivarrebbe a una bella iniezione di fiducia per l’Italia ma che, come si intuisce, non è una passeggiata.
Però, se non ora, quando? E qui arriviamo al punto della settimana: finalmente, dopo aver ignorato per mesi e mesi l’emergenza sviluppo, il ministro Tremonti ha annunciato l’avvio del cosiddetto tagliando della crescita, cioè la messa in opera di misure volte a favorire lo sviluppo, il grande assente delle manovre che si sono fin qui succedute. Il proposito, anche se molto tardivo, è lodevole ma, al di là delle intenzioni, saranno i fatti a dire se finalmente si stia davvero imboccando la strada giusta.
L’avvio del tagliando avviene con una certezza, un timore e una speranza. La certezza è che, a differenza del passato, le risorse pubbliche sono poche, pochissime. Il timore è che si pensi a soluzioni di routine: qualche finanziamento qui, qualche infrastruttura là, pannicelli caldi per l’export nel vuoto post-Ice. La speranza è che si prenda il toro per le corna e si ricorra ad un intervento-lampo che solo può dare speranza a breve a crescita e occupazione: la cosiddetta svalutazione fiscale, cioè la riduzione degli oneri contributivi in busta paga, finanziata con l’innalzamento delle aliquote Iva.
E’ l’idea lanciata da Prometeia e rilanciata da Fabrizio Onida sul Sole 24 Ore del 6 settembre, che scrive: “Le imprese sarebbero incoraggiate a creare così nuovi posti di lavoro regolari (non in nero) mentre il maggior reddito disponibile dei lavoratori, solo molto parzialmente neutralizzato dai modesti rincari di prezzi dovuti all’Iva in questa fase di congiuntura depressa, agirebbe da spinta ai consumi”, con effetti anche sull’export e sulla crescita del Pil.
Meno oneri contributivi per imprese e lavoratori in cambio di più Iva: non sarà la panacea di tutti i mali ma una scossa immediata alla morta gora dell’economia probabilmente sì. Ed è certo che anche i mercati se ne accorgerebbero.