I tempi cambiano. Fino a qualche anno fa era la California, con i suoi standard sempre più stringenti sulle emissioni, a dettare i tempi dell’evoluzione tecnologica del settore auto americano. E dettandoli all’America li dettava al mondo. Intere carriere politiche sono state costruite a Sacramento sulle normative ambientali. Non più. Oggi è la Cina a dettare il passo al mondo. Importatore di petrolio, la Cina ha negli ultimi anni dato un forte impulso al nucleare e alle rinnovabili e ha ora abbondanza di elettricità. Buttandosi massicciamente sull’auto elettrica e imponendo ritmi velocissimi per la transizione, la Cina conta di diventare leader mondiale non solo del settore (lo è già, producendo da sola quanto America e Europa insieme), ma dell’innovazione del settore.
E per inciso offre una conferma della tesi per cui è lo sviluppo, e non la decrescita, a favorire le condizioni per la difesa dell’ambiente. Geely Auto, il gruppo cinese che è entrato a gamba tesa nel cuore dell’industria tedesca comprandosi un decimo di Daimler, produrrà solo elettrico a partire dal 2020. Great Wall Motors si prepara a un’alleanza sull’elettrico con Bmw. Il lusso, nell’auto, è il solo settore in cui i cinesi hanno ancora da imparare qualcosa, da qui l’interesse per l’auto tedesca. L’auto elettrica è cosa nota. Meno noto è il fatto che già a partire dal 2025 saranno in produzione auto elettriche capaci di durare un milione e mezzo di chilometri e anche di più.
Il mercato si sposterà sempre di più sui ricambi, sulle batterie e sui motori a trazione, oggi prodotti prevalentemente in Giappone (che, di suo, sta puntando molto sull’idrogeno). Scocche e assemblaggio sfumeranno sullo sfondo. E poi stanno arrivando le macchine volanti, il sogno di chi era ragazzo negli anni Sessanta. Un modello è già in vendita da quest’anno e ci sono prototipi di Boeing, Airbus, Google, di alcune case automobilistiche e di qualche sognatore americano miliardario. Alcuni sono elicotteri capaci di strisciare, altri sono droni con le ruote, altri ancora sono modelli che non toccano mai per terra.
Bob Lutz, una vita nell’auto americana, ha sollevato un polverone sostenendo recentemente che le auto che siamo abituati a conoscere diventeranno presto quello che oggi sono i cavalli, non più un mezzo di trasporto ma un hobby per ricchi allevatori da esibire alle corse o da sfoggiare nella tenuta del castello. A parte le auto d’epoca e quelle sportive, tutto il resto sarà una commodity, una miriade di taxi distribuiti dappertutto su cui saliremo, diremo a voce a un’intelligenza artificiale dove vogliamo andare e questa ci porterà, facendo tutto da sola e intrattenendoci con un film o chiacchierando con noi.
La guida autonoma, superate le resistenze burocratiche e politiche, sposterà a sua volta il peso del valore aggiunto del settore auto sul software e sui suoi produttori. L’industria europea, unificatasi molto prima della politica, è oggi parte della filiera dell’industria tedesca. L’industria tedesca, a sua volta, ha il suo perno nell’auto. L’altro grande settore, la chimica-farmaceutica, risplende meno di un tempo, mentre la siderurgia è emigrata. Nell’alta tecnologia la Germania non è mai riuscita a sfondare veramente, avendo perso quasi subito la guerra dell’hardware e mantenendo oggi un presidio nel software di buon livello ma decisamente sottodimensionato rispetto all’America e all’Asia e senza l’enfasi sull’intelligenza artificiale che i tempi richiedono.
Quanto all’energia, due decenni di ricerca populista del consenso e di costosi pasticci lasciano a industrie e consumatori tedeschi bollette tra le più alte del mondo. L’auto, come abbiamo visto, non è un settore senza futuro, come si diceva nei tristi anni Settanta. Tutt’altro, di futuri ne ha fin troppi. Il problema è che questi futuri comportano tutti enormi investimenti senza garanzia di successo. È sempre così quando c’è innovazione e non c’è ancora uno standard condiviso. Bisogna buttarsi, spendere, sperimentare e c’è sempre qualcuno che ne esce con le ossa rotte, come la Sony ai tempi del Betamax.
L’industria dell’auto tedesca ha fatto grandi cose. Si è globalizzata e delocalizzata, ha innovato i processi e abbracciato l’automazione, ha intercettato con successo la nuova classe media dei paesi emergenti, ha tratto beneficio dal petrolio a basso prezzo che ha spinto la domanda verso i Suv e le auto di lusso. Questi fattori positivi perdureranno e la Germania difenderà con le unghie e coi denti il suo primato, ma la bufera dell’innovazione sarà lunga e violenta e la pressione sui margini di profitto costante. È comprensibile che i mercati, quando devono applicare un multiplo e un premio per il rischio sul settore, stiano bassi col primo e alti col secondo.
Le borse europee sono fatte di auto, banche e utilities. Le banche sono state risanate, con amorevoli e pazienti cure in Germania e con amputazioni senza anestesia in Italia, ma al prezzo di essere trasformate a loro volta in utilities senza crescita. Il Return on equity non può salire se ogni ripresa degli utili induce il regolatore a esigere un allargamento dell’equity. Oggi, primo marzo 2018, l’Euro Stoxx 50 è a 3400. Tre anni fa, il primo marzo 2015, era a 3591. In tre anni di grande ripresa europea e di bull market globale e dopo un anno di effetto Macron siamo riusciti a perdere più del 5 per cento. Negli stessi tre anni l’SP 500 ha guadagnato il 28 per cento.
Effetto dell’euro, si dirà. Tre anni fa stava a 1.12 e oggi a 1.21. La rivalutazione dell’8 per cento ha pesato negativamente, certo. Anche lo yen, però, ha rivalutato e anche più di noi. Ci volevano 119.68 yen per comprare un dollaro il primo marzo 2015 e oggi ne bastano 106.76, una rivalutazione dell’11 per cento. Ciononostante il Nikkei è riuscito ad apprezzarsi dell’11 per cento. Un americano che avesse investito sulla borsa giapponese tre anni fa senza coprire il cambio guadagnerebbe oggi il 22 per cento, sull’Europa il 3.
Il Giappone ha fatto l’Abenomics. L’America ha tagliato radicalmente le tasse. La storia dirà se hanno fatto bene, ma almeno ci hanno provato. In Europa, oltre a inseguire a bastonate la provincia ribelle inglese, bacchettare l’est perché non vuole immigrazione e accertarsi che le banche italiane non comprino i titoli di stato italiani, riusciremo anche ad attrezzarci per il duro mondo che verrà? Venendo all’immediato, il dato più confortante per i mercati è quello dell’inflazione. L’andamento reale, in base agli ultimi dati di questi giorni, è decisamente meno minaccioso di quello che si cominciava a temere, sia in America sia in Europa. Occorreranno naturalmente altre conferme, ma intanto notiamo che il petrolio ha smesso di salire e anche questo è incoraggiante.
Borse e bond, che si stavano preparando a una nuova ondata di maltempo, possono ora respirare meglio. L’inflazione arriverà, ma ci sarà una bella differenza tra un aumento improvviso e una salita dolce e controllabile. Ci sarà ancora volatilità, ma le inevitabili periodiche puntate verso il basso faranno meno paura.