Prima di parlare seriamente di reflation trade va sgombrato il campo da possibili interferenze geopolitiche. È possibile?
Sì, è possibile, quanto meno nel breve termine. Il punto di crisi più sensibile è ovviamente la Corea, ma a guardare le cose con distacco bisogna riconoscere che non siamo ancora in una situazione di allarme rosso. Il romantico e feroce Fidel Castro, come si è poi saputo, era disposto, nel 1962, a rischiare la distruzione completa di Cuba pur di non rinunciare ai suoi missili puntati su Miami e i russi dovettero faticare per farlo ragionare. Kim pensa di non correre questo rischio e probabilmente ha ragione. La differenza è che Kim tiene in ostaggio la Corea del Sud, che ha già i sintomi della sindrome di Stoccolma, ha eletto un presidente pacifista e ha bloccato nelle settimane scorse l’idea trumpiana di dare una prima risposta militare. Kim punta alla vittoria grossa, che non è semplicemente la sopravvivenza del suo regime, ma il distacco della Corea del Sud dagli Stati Uniti.
Al di là delle parole di fuoco, la vicenda nucleare coreana è una partita a scacchi che dura da vent’anni e può ancora durare a lungo. Kim è stato bene attento a non violare lo spazio territoriale giapponese (i suoi missili hanno sorvolato il Giappone sopra i cento chilometri di altitudine che sono il limite della sovranità) o quello americano. Trump, dal canto suo, ha accettato di non violare mai, con i suoi caccia, lo spazio territoriale nordcoreano e non ha mai provato ad abbattere i missili di Kim, consapevole che solo due missili su tre vengono effettivamente intercettati dalla sua contraerea. Se il piano di Kim avrà successo, ogni regime in giro per il mondo che voglia tentare di avere lunga vita cercherà di dotarsi di un’atomica. Questo fattore di instabilità ne avrà sullo sfondo uno ancora più grande, ovvero la crescente rivalità tra America, Russia e Cina. I buoni rapporti personali tra Trump, Xi Jinping e Putin sono un fatto positivo, perché permettono di tenere sempre aperti canali di comunicazione, ma le grandi aree geopolitiche sono oggettivamente e strutturalmente in rotta di collisione commerciale, economica e militare.
Che significa questo per i mercati?
Istintivamente viene da pensare all’oro, che è però più utile per coprirsi dai rischi acuti che da quelli strutturali. Per questi ultimi la risposta non può che essere il sovrappeso significativo di titoli legati alla difesa in senso lato (aerospazio, cybersecurity, elettronica, robotica militare). Non c’è un’area del mondo, inclusa la pacifista Europa, in cui le spese militari non siano destinate a crescere nei prossimi anni. I titoli americani del settore hanno avuto performance stellari nell’ultimo anno ma i loro multipli, intorno a 20, sono ancora largamente inferiori a quelli dei Faang e della tecnologia in generale, mentre i loro utili, assicurati da commesse governative pluridecennali, sono molto più certi.
Le elezioni tedesche possono attenuare in modo rilevante l’effetto Macron sui mercati?
Il 2016 è stato l’anno in cui si è detto che l’Occidente virava verso il populismo. Il 2017, per qualche mese, ha visto prevalere l’idea che il populismo era già finito e che la restaurazione dell’Ancien Régime sarebbe stata veloce e aggressiva. La realtà è più sfumata. Il populismo resterà endemico e tenderà a riemergere ogni volta che il ciclo economico si indebolirà e quando i flussi migratori torneranno a crescere. Nello specifico, le elezioni tedesche significano un ritorno a posizioni più dure in caso di crisi dei grandi debitori come Grecia e Italia, ma non necessariamente una ripetizione dei gravi errori commessi nel 2011-12. Significano anche una maggiore cacofonia nel coro filoeuropeo. La Commissione pensa ai 27 paesi, Macron solo all’eurozona e all’asse franco-tedesco. La Fdp pensa a un’eurozona che possa espellere i suoi membri indisciplinati, i Verdi farebbero entrare nell’euro anche gli alieni.
La Fdp vuole un Esm impegnato esclusivamente a sorvegliare e punire, Macron lo vorrebbe invece votato a indebitarsi e spendere. Rimangono però due certezze, ovvero il ruolo centrale della Merkel, tanto maggiore quanto più gli altri sono divisi, e l’orientamento comunque favorevole a qualche forma di maggiore integrazione europea. I mercati hanno dato una risposta razionale al voto tedesco. La pausa nel percorso di rivalutazione dell’euro, già iniziata prima del voto, si è fatta più convinta e profonda, ma non si è trasformata in una correzione seria o in un’inversione di tendenza. La fascia 1.17-1.20 può accompagnarci fino a dicembre o a gennaio, quando avremo finalmente il nuovo governo a Berlino. In ogni caso, per vedere la seconda parte del rialzo dell’euro, dovremo avere alle spalle le elezioni italiane. Il profilarsi di una pausa per l’euro di una certa durata ha dato giustamente spazio alle borse europee. Il Dax, paradossalmente, è così il maggiore beneficiario del voto tedesco.
L’Italia è un rischio?
Non particolarmente. Fino al voto si cercherà di aiutarla contenendo il rialzo dell’euro e chiudendo un occhio e mezzo sulle mancate manovre correttive. Dopo il voto un governo di coalizione, probabilmente con una facciata tecnica, sarà inevitabile. Il voto tedesco indurrà però i mercati, nei prossimi mesi, a dare più peso alle vicende italiane, che di recente erano state derubricate da sistemiche a regionali. Il recupero della borsa italiana continuerà, ma dovrà essere accompagnato da rassicurazioni sul fronte politico.
Da cosa trae origine il reflation trade in corso?
Ci sono più fattori concomitanti. L’inflazione in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti e Germania, è stata nell’ultimo mese leggermente più alta delle stime. Il petrolio è in rialzo e le sue prospettive per i prossimi mesi sembrano discretamente solide. Gli uragani sono uno shock inflazionistico da offerta. La Fed ha dato prova di credere nella forza dell’economia americana e ha deciso di confermare il Quantitative tightening e il rialzo di dicembre. La riforma fiscale americana è entrata nel vivo e da qui ai primi mesi del 2018 sarà protagonista assoluta della scena politica. Il reflation trade in corso è una versione ultralight di quello di novembre marzo e include, oggi come allora, un dollaro più sostenuto, una curva dei rendimenti più ripida (con un rialzo dei rendimenti della parte lunga) e nuovi massimi di borsa con una rotazione verso i ciclici e l’energia. Per il momento non ha una grande forza, ma è già stato in grado di invertire alcune attese, come quelle, prevalenti fino a due-tre settimane fa, di un dollaro sempre più debole e di tassi a lungo sempre più bassi.
Il reflation trade è destinato a rimanere ultralight?
Questa volta i mercati non faranno aperture di credito e il reflation trade proseguirà solo nella misura in cui sarà supportato da progressi concreti nella riforma fiscale. Il senatore Corker avrà anche il dente avvelenato con Trump che non l’ha fatto segretario di stato, ma non ha torto quando dice che la riforma sanitaria (fallita quattro volte) è stata una passeggiata rispetto a quello che sarà la riforma fiscale.
Delle due l’una. O la riforma sarà una non riforma e si limiterà a tagliare qualche aliquota oppure, se vorrà essere davvero incisiva, dovrà bilanciare tagli più profondi con minori deduzioni e detrazioni. Nel primo caso l’effetto sarà positivo ma non radicale (un trilione spalmato su dieci anni in un’economia otto volte quella italiana corrisponde a una manovra espansiva in Italia di 10-12 miliardi l’anno).
Nel secondo assisteremo a una levata di scudi degli interessi colpiti. Con i democratici fermamente intenzionati a votare contro qualsiasi proposta e la fragile maggioranza repubblicana, alle lobby sarà sufficiente convincere o comprare uno o due senatori per fare naufragare le parti più innovative e utili della riforma. In ogni caso, qualsiasi riforma sarà meglio di niente e poiché qualche forma di stimolo alla fine molto probabilmente verrà fuori, il reflation trade in corso, a condizione che mantenga i piedi per terra, ha una sua legittimità. Chi vuole vendere dovrà portare ancora un po’ di pazienza.