E’ un meccanismo che si ripete in molti settori: più sei grande, più fai da riferimento e da traino per gli altri. Così anche per i listini azionari: è il ristretto numero dei big a determinare l’andamento degli indici. Mentre le società più piccole restano in disparte.
Sia sul listino europeo Eurostoxx, sia su quello statunitense S&P 500 il fenomeno è lo stesso: è il gigante che condiziona le quotazioni, il che per altro non è esente da rischi.
La società svizzera di gestione Vontobel ha elaborato una classifica dei titoli che quest’anno hanno più contribuito alla performance dei mercati, in Europa e negli Stati Uniti, con i dati aggiornati al 17 maggio, secondo quanto riporta “Affari e Finanza” di Repubblica.
I big che hanno condizionato l’Eurostoxx parlano francese
In Europa pochi titoli di dimensioni enormi hanno sostenuto con i loro rialzi il più 11,6% messo a segno dall’indice Eurostoxx. In testa sventola la bandiera francese portata da Lvmh, di Bernard Arnault, tycoon stabilmente sul podio degli uomini più ricchi del mondo: in Borsa il colosso francese del lusso vale 438 miliardi di euro. Subito dopo ci sono Hermès e L’Oreal.
Questa società presentano un fattore comune, dice Mario Montagnani, il senior investment manager di Vontobel che ha elaborato i dati: “Sono società che realizzano una parte massiccia dei loro ricavi e profitti in Asia, in particolare in Cina. Il mercato si è giocato il tema della riapertura in Cina in maniera indiretta, investendo in titoli di mercati sviluppati con una sostanziale esposizione ai consumatori cinesi”.
I big di Wall Street sono nell’area tech
Stesso discorso per Wall Street, dove il rialzo del 7,5% dell’indice americano S&P 500 è spiegato per intero dagli andamenti dei dieci titoli maggiori, che per altro sono soprattutto tecnologici. Il titolo principe è Apple, con una capitalizzazione di quasi 2.700 miliardi di dollari. Seguono Nvidia, Microsoft, Meta-Facebook, Alphabet-Google, Amazon, Lilly e Tesla.
Ma c’è anche il tema dei multipli di mercato
Ma non c’è solo il tema dei valori assoluti dei titoli, ma anche le valutazioni in termini di multipli di mercato. In Europa i 25 titoli maggiori dell’indice Eurostoxx presentano un rapporto fra prezzi correnti e utili 2024 di 23 volte, quasi il doppio delle 11,9 volte di tutti gli altri. Hermès e Christian Dior si spingono addirittura a 46,5 volte, Ferrari a 37,7. Enel, la maggiore società italiana per capitalizzazione (61 miliardi), si ferma a 9,4 volte, Unicredit – uno dei migliori titoli dell’indice, con un più 41,8% da inizio anno – anche più in basso, a 5,1 volte. Anche a Wall Street il tema esiste. Anche se le distanze fra il gruppo di testa e la massa sono meno spinte: lo stesso rapporto fra prezzo e utili 2024 per i 25 colossi del mercato è in media pari a 28 volte, mentre per l’intero indice S&P 500 è poco sotto le venti volte. Anche qui ci sono vette himalayane: Nvidia e Alphabet-Google sono a 50 volte, Tesla a 36.
La polarizzazione delle valutazioni
Ma per molti osservatori la polarizzazione non è priva di rischi. Molti fondi che replicano gli indici sono costretti a puntare sui titoli dei big, anche se le valutazioni sono elevate, mentre rischiano di passare inosservate performance industriali eccellenti di società più piccole, che però pesano poco sull’andamento del mercato.
Ma, come si sa, più si vola alto, più ci si fa male quando si cade: se una delle ultra-corporation annuncia risultati sotto le attese e lo scivolone si amplifica, del titolo come degli indici. Negli Usa gli esempi più eclatanti del 2022: con i crolli di Tesla (-65%), Amazon (-50), Alphabet-Google (-39), Il Nasdaq, dopo anni di rialzi, è crollato del 32%.
E per i titoli sottovalutati ?
Chi crede che il mercato sia inesorabilmente destinato a premiare i sotto-valutati di oggi, rinnegando le ultra-corporation, potrebbe però restare deluso, sostiene Montagnani. In Europa, nota il gestore, il rialzo da inizio anno è stato trainato da soli sei settori su venti, lusso, automobili, tecnologia, industrial, retail e alimentari: “Gli altri presentano quasi sempre un profilo di crescita molto basso, come le utilities, le banche, le assicurazioni, le telecomunicazioni e altri ancora. Le valutazioni basse, in questo caso, possono dunque essere giustificate”.
Anche negli Stati Uniti non è detto che il mercato sia pronto a cambiare cavalli: “Molte società che presentano multipli elevati hanno un profilo reddituale solido e generano forti flussi di cassa”, dice Montagnani, che sottolinea un fattore cruciale, il modo in cui questa cassa viene utilizzata: “Se si guarda l’indice S&P 500 dal 2010, si può calcolare che circa un terzo del ritorno netto è stato determinato dai buy back e che questa componente è andata via via crescendo dagli anni 2014-2015 in poi, raggiungendo il piccolo proprio negli ultimi anni. Questa forte propensione delle società Usa a restituire la liquidità in eccesso agli azionisti tramite i buyback, difficilmente verrà meno”.