Dopo il calo progressivo dei flussi verso i mercati azionari europei che ha toccato il minimo nella prima settimana di gennaio, ora stiamo assistendo ad una timida ripresa. In particolare, i flussi dagli Usa sono rientrati sui 27 miliardi di dollari, dai 35 miliardi di settembre, archiviando un pessimo semestre.
La magnitudo con la quale lo scorso semestre abbiamo assistito a dismissioni della componente azionaria nei portafogli non europei era alimentata dai timori per una maratona verso le elezioni europee densa di incognite, a partire dalla Brexit e fino all’affermazione delle destre estreme e dei cosiddetti partiti “sovranisti”, pronti a far deragliare il Progetto europeo, ma senza rinunciare ai privilegi delle cariche europee e dei relativi fondi per i rispettivi Paesi.
BREXIT O NON BREXIT: QUESTO È IL DILEMMA
Se sia più nobile sopportare
le percosse e le ingiurie di una sorte atroce,
oppure prendere le armi contro un mare di guai
e, combattendo, annientarli.
Certamente Shakespeare non avrebbe potuto scrivere partitura più avvincente. Allo stato attuale, dopo le tre giornate di votazione è evidente che l’ipotesi di un secondo referendum è definitivamente sfumata, a meno che non diventi l’unica speranza per ottenere un’estensione di un lungo periodo di permanenza senza l’applicazione dell’art. 50 invocato dalla stessa Premier May per favorire l’uscita dall’Ue. Impossibile a questo punto far digerire all’Europa dei 27 un’estensione di breve termine di fronte al rifiuto di accettare l’accordo che è stato proposto.
La prossima settimana diventa decisiva e se sarà un “NO deal” il flusso degli investimenti verso l’UE tornerà ad invertirsi, rientrando ai numeri di fine anno, con le performance dei principali asset che pagheranno a caro prezzo la volatilità legata a questo ennesimo verdetto per una saga non a lieto fine.
Intanto, nella Bce il dibattito sullo stato dell’inflazione e sull’ennesimo fallimento nel raggiungimento del target al 2% fa suggerire a Rehn la necessità di una revisione sistematica delle misure non convenzionali, vistone l’esito. E dall’UE al Giappone lo scoglio dell’inflazione rimane la bestia nera delle banche centrali.
In Giappone poi la Banca centrale si è trovata nella difficoltà di bilanciare un’azione deflazionistica del Governo con misure legate a dettami di bilancio e che si sono estese dal calmierare i prezzi delle tariffe dei cellulari ad estendere l’accesso all’educazione statale gratuita, fino alle restrizioni sui controlli dei costi amministrativi della pubblica amministrazione.
Questo problema per l’Ue è elevato a potenza ben 27 volte per la granularità delle azioni dei singoli Governi, che non stanno vivendo un periodo di calma relativa.
I GILET GIALLI NON ARRETRANO
In Francia il Governo sta vivendo in uno stato d’emergenza sociale ormai da oltre un trimestre con danni diffusi al ciclo economico. Quella che era nata a novembre come una protesta per una tassa sui carburanti che penalizzava le periferie meno organizzate e servite efficientemente dai trasporti pubblici è diventata un tribunale popolare che punta il dito sul fallimento di un modello economico che riducendo i servizi pubblici per esigenze di bilancio ha alimentato disuguaglianze economiche che pesano sulla pace sociale. Quella pace che l’Ue ha garantito sin dal dopoguerra e che ora vede l’incapacità del Governo Macron ad arginare la protesta nella quale si sono inseriti sobillatori e “professionisti della rivolta”, che mettono a ferro e fuoco la capitale ogni fine settimana con danni ingenti. C’è il rischio che gli esiti positivi dell’indice PMI manifatturiero di febbraio in ripresa siano solo un illusione.
Draghi nell’ultima conferenza stampa ha collegato il rallentamento europeo alla crisi del settore automobilistico tedesco e all’arretramento ciclico italiano, ma si è ben guardato dall’intromettersi nella questione francese, dato che già la tensione nell’Ue è alta e proprio i francesi sono i più intolleranti alla questione Brexit e a qualsiasi ammorbidimento della posizione dell’Ue.
LA CINA LANCIA IL SALVAGENTE PER L’ACCORDO SUI DAZI
E mentre dalle economie emergenti i segnali di una diminuzione del rischio idiosincratico tardano a palesarsi, si accrescono le tensioni sul calendario geopolitico per le elezioni imminenti in Turchia, Ucraina, Sudafrica, Argentina e India. E le preferenze degli investitori restano sugli asset in divisa “forte” rispetto a quelli in divisa locale.
Solo la Cina ha ribaltato il bilancio settimanale, approvando alla velocità della luce (chiudendo l’iter avviato ad ottobre) la nuova legge sugli investimenti esteri, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2020. La nuova legge cancella le precedenti che risalivano rispettivamente al 1979 ed al 1990. Con questa legge i cinesi vengono incontro alle richieste Usa e in un certo senso all’esigenza di uscire dalla guerra commerciale, elevando le tutele alla proprietà intellettuale delle aziende estere e rendendo le opportunità di penetrazione del mercato interno paritetiche, con la sola esclusione dei settori protetti che son stati ridotti a meno di 50. A questo primo impegno il Segretario del Tesoro Usa ha chiesto di aggiungerne uno anche per l’industria cinematografica, finora danneggiata dall’obbligo di fissare joint venture estremamente penalizzanti per le aziende americane.
Intanto, la pazienza e la cautela della Fed sui tassi favorisce la solidità della congiuntura americana su una media per quest’anno del 2,5%, con un arretramento dal 2,9% del 2018 anche dovuto al record dello shutdown più lungo della storia Usa.
E con il 98% delle trimestrali positive e una crescita degli utili molto vicina al 15%, è evidente che la questione dei flussi americani verso l’Ue resta un’incognita sulla quale le elezioni europee giocano un ruolo cruciale a 70 giorni dal voto. Nei sondaggi lo schieramento di centrodestra del Partito Popolare Europea supera i Socialisti europei di un paio di lunghezze ed il fenomeno ultranazionalista pare sotto controllo.
Tuttavia, resta il dubbio che la situazione dei Governi dei Paesi fondatori impegnati nel far svoltare il Progetto Europeo su un binario più sicuro e solido resti piuttosto incerta: dalla Germania di una Merkel in chiusura di carriera all’Italia verso possibili elezioni anticipate.