La parola d’ordine di Trump è rendere di nuovo grande l’America e la sua amministrazione parte con enormi ambizioni. Il Regno Unito è per il momento ripiegato su se stesso e in cerca di una nuova identità, ma con Trump alla Casa Bianca Brexit appare oggi una scelta molto meno azzardata e forse perfino preveggente. La Cina di Xi trasuda forza politica e volontà di potenza. Asia e Africa sono il terreno su cui si proietta il futuro della la sua economia, organizzata ormai in filiere che hanno il centro a Shanghai o nel delta del Fiume delle Perle e le fabbriche che si preparano a spostarsi in Vietnam, Birmania e Pakistan.
La Russia gioca con grande maestria le sue carte non eccellenti, manda un immagine di forza militare e con il putinismo esercita un richiamo ideologico globale che non si vedeva dai tempi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta. Il Giappone gestisce ordinatamente la sua decadenza, mantiene con le unghie e coi denti la sua identità monoculturale e garantisce il pieno impiego a tutta la popolazione, che ricambia il governo Abe con un ampio consenso. L’India, con la sua scriteriata scelta di abbandonare a sorpresa il contante, conferma comunque di pensare in grande e di volersi modernizzare a tappe forzate. Quanto alla Turchia di Erdogan o all’Iran della teocrazia, tutto si può dire ma non che non abbiano grandi ambizioni.
L’America Latina, nel suo plurisecolare viaggio pendolare tra populismo e realismo, sta decisamente abbandonando il primo a favore del secondo. Brasile e Argentina hanno già imboccato la strada della ripresa, il Messico è attrezzato per sopravvivere a Trump e le ultime sacche di populismo hanno il tempo contato. L’Africa subsahariana ha superato la prova molto difficile del collasso dei prezzi delle materie prime senza crisi del debito generalizzate, tenendo insieme la complessa struttura delle sue società e mantenendo in larga misura un assetto democratico. La tensione politica, evidente in Congo e in Sud Africa, può avere uno sbocco positivo già nei prossimi mesi. Australia e Canada continuano a essere oasi di stabilità e il recupero delle materie prime garantisce per i prossimi anni il permanere di questa loro condizione.
Il ventre molle del mondo, a questo punto, è circoscritto all’Europa e alla sua frontiera meridionale, la riva sud del Mediterraneo, una polveriera che offre solo l’alternativa tra caos, democrazie debolissime e regimi autoritari.
Che l’Europa sia in crisi di identità e in uno stato di paralisi politica è noto. Che l’idea europea non scaldi più nemmeno i cuori dei suoi fautori è evidente. Che l’immigrazione sia gestita nel peggiore dei modi e generi più xenofobia che crescita è sotto gli occhi di tutti. E che la stagnazione abbia lasciato ferite profonde è confermato dal fatto che la ripresa in corso da ormai due anni (pagata a peso d’oro con la svalutazione dell’euro da 1.60 nel 2008 a 1.05 oggi) non ha finora fermato la marea populista. Se la bassa qualità della piena occupazione americana non ha fermato Trump in America, l’ancora ampia disoccupazione europea ben difficilmente restituirà consenso alla nostra leadership.
L’aspetto che viene meno evidenziato è quello del completo isolamento dell’Europa, mai così evidente dalla fine della seconda guerra mondiale. Si vada su Breitbart, il sito ispirato da Steve Bannon, ora strategist in capo di Trump. È un sito tanto radicale quanto intelligente ma la sua intelligenza rende ancora più impressionante l’impegno profuso nell’evidente e dichiarato disegno di disgregare/liberare l’Europa dal giogo di Bruxelles (presto Breitbart pubblicherà un’edizione europea).
Trump vede del resto l’Europa con gli occhi di Farage. Si prepara a rispettare la Merkel nella misura in cui la Merkel avrà ancora potere, ma non si prepara certo a favorirla in alcun modo e dove sarà possibile cercherà di indebolirla.
Né Trump né Putin né Xi hanno interesse a un’Europa unita e preferirebbero trattare, da un’evidente posizione di forza, con i singoli stati nazionali. Per certi aspetti è sempre stato così, ma la Realpolitik ha sempre comportato un riconoscimento dell’Unione. Ai tempi della Guerra Fredda le due Europe facevano blocco con le due superpotenze. L’euro è stato accettato dall’America, anche se solo come male minore. Obama è stato gelido verso l’Europa, ma non ostile. Oggi c’è qualcosa che non c’è mai stato, una chiara antipatia.
Il 2017 si concluderà verosimilmente con l’Unione e l’eurozona ancora in piedi. Wilders, pur in aumento, è dato a 36 seggi su 150 nel parlamento olandese. Fillon è dato a 70 a 30 nel ballottaggio con la Le Pen e l’Italia, con una nuova legge elettorale, renderà molto difficile l’accesso al governo dell’opposizione. La Merkel, dal canto suo, si avvia sicura verso il suo quarto mandato. Ci vuole però prudenza e non solo per la ridotta affidabilità dei sondaggi. La distanza tra Fillon e Le Pen si sta già riducendo e gli umori sono fluidi. Se ne avranno voglia, l’Isis e i suoi simpatizzanti potranno pesare parecchio sul voto.
Lo scenario di base resta comunque quello in cui un’Europa fragile e isolata riesce a sopravvivere (il suo vero test sarà la prossima recessione) ma non a trovare lo scatto per riformarsi e rilanciarsi in modo credibile. Fillon, nel caso, sarà un passo avanti importante, ma si troverà sempre la strada sbarrata dalla Merkel sulle questioni decisive.
Nella sua fragilità l’Europa continuerà dunque a fare ricorso a lenitivi, antidolorifici e antidepressivi come l’euro sottovalutato e il Qe, ai quali si aggiungerà un ulteriore modesto addolcimento della politica fiscale, che resterà comunque ispirata all’austerità. Questi rimedi non saranno assolutamente risolutivi, ma permetteranno di tirare avanti e lasceranno alle borse europee la possibilità di seguire Wall Street al rialzo e perfino di superarla, almeno temporaneamente, grazie al cambio favorevole. E l’Italia, nonostante la conclusione non particolarmente gloriosa di questo ciclo di ricapitalizzazione delle banche, trarrà vantaggio dal fatto di averlo comunque portato a termine, in un modo o nell’altro, e potrà addirittura fare meglio, in borsa, del resto dell’Europa, almeno per qualche tempo.
Venendo al breve, raccomandiamo una certa prudenza tattica. Molte vendite, in America, sono state rinviate all’anno nuovo, quando verosimilmente si pagheranno tasse sui capital gain più basse di quelle di oggi. A partire dal 10 gennaio avremo poi i risultati trimestrali ed è difficile pensare che il dollaro forte non abbia fatto qualche vittima tra gli esportatori. Da qui a fine anno, quindi, si potrà accumulare un po’ di liquidità da usare eventualmente in gennaio.
Nel frattempo, buone feste a tutti.