Vent’anni dopo la sua scomparsa si può fare un bilancio laico, cioè senza demonizzazioni e senza santificazioni, del ruolo politico che Bettino Craxi ha avuto nel bene e nel male sulla scena italiana? E’ quanto auspica, in questa intervista a FIRSTonline, Gianfranco Borghini che ai tempi in cui Craxi guidava il Psi ed era a Palazzo Chigi, era il “ministro dell’Industria” del Pci e uno degli esponenti della corrente migliorista di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano che con più convinzione si batteva per tenere aperte le porte del dialogo tra Psi e Pci anche in tempi di furiose polemiche s sinistra. “Ragionare a mente fredda su Craxi – sostiene oggi Borghini – farebbe bene soprattutto alla sinistra” perchè la sconfitta di Craxi, dovuta ai suoi errori ma anche all’opposizione del Pci, segnò il tramonto non solo del Psi ma del sogno, sostenuto da Craxi, di rinnovare e unire l’intera sinistra italiana su basi riformiste – come era avvenuto per la socialdemocrazia europea – per costruire un’alternativa alla Dc e modernizzare l’Italia. Al di là delle colpe personali che furono all’origine delle condanne giudiziarie di Craxi e che lo indussero a rifugiarsi in Tunisia, non andò così e la storia dell’Italia prese una direzione diversa da quella che il leader socialista aveva immaginato. Borghini ne spiega e ne analizza le ragioni in questa intervista rilasciata in occasione del ventesimo anniversario della scomparsa di Craxi.
In questi giorni ricorrono vent’anni dalla scomparsa di Bettino Craxi e l’anniversario è accompagnato da un film – “Hammamet”- , da una pioggia di libri – tra cui, ”L’antipatico” del suo iniziale delfino Claudio Martelli – e da convegni e rievocazioni: dopo gli anni della santificazione prima e della demonizzazione dopo, è arrivato il tempo in cui si possa fare un bilancio laico di quello che Craxi e il craxismo hanno fatto nel bene e nel male nella politica italiana?
“Nonostante le scorie del passato, ragionare a mente fredda su Craxi e sul craxismo è assolutamente necessario e dovrebbe farlo soprattutto la sinistra ricordando la lezione di Palmiro Togliatti che negli anni Cinquanta indicò l’importanza di fare un bilancio equanime su Alcide De Gasperi”.
Ma il suo personale bilancio su Craxi qual è? Che cosa resta di attuale di Craxi e del craxismo e quali sono, secondo lei, gli errori che hanno portato Craxi alla sconfitta?
“Ciò che maggiormente resta della stagione di Craxi fu il suo tentativo di riformare il Movimento operaio come era successo all’estero, favorendo un’evoluzione in stile europeo del pensiero socialista e ricomponendo la sinistra su basi riformiste, precedentemente ostacolata dalla forte presenza comunista e dalle tentazioni massimaliste, allo scopo di creare anche in Italia l’alternativa di sinistra al governo. Ciò comportava però che sia il Psi che il Pci abbandonassero le posizioni del passato ed evolvessero verso una comune e moderna visione riformatrice. Purtroppo il tentativo non ebbe successo e le polemiche e le frizioni tra Psi e Pci finirono per prevalere, facendo sfumare la possibilità che anche in Italia si creasse una sinistra più moderna e più forte in grado di candidarsi alla guida del governo in alternativa alla Dc. E’ stata un’occasione perduta per tutta la sinistra”.
Perché l’operazione di rifondazione della sinistra non riuscì?
“Essenzialmente per l’opposizione della Dc da un lato e per le resistenze del Pci dall’altro, ma anche per la sottovalutazione da parte di Craxi della complessità della situazione italiana”.
Fu questo il principale errore di Craxi?
“Sì ma non solo. Il primato della politica lo portò a sposare una visione statalista in economia e a sottovalutare il pericolo della corruzione del partito”.
Molti dei sostenitori di Craxi dicono che è stato eliminato per via giudiziaria e in questo giudizio c’è certamente una parte di verità, ma le tangenti e la corruzione c’erano davvero: al di là delle strumentalizzazioni, come fu possibile che Craxi sottovalutasse tanto l’aspetto etico della politica fino a restarne travolto? Fu arroganza del potere?
“Probabilmente sottovalutò l’importanza di rinnovare anche la vita interna del Psi creando non solo una struttura organizzativa adeguata ma anche sufficienti anticorpi rispetto alle degenerazioni che la presenza al governo poteva comportare e comportò. Questo non toglie che i processi giudiziari e politici che Craxi ha subito siano stati al limite dell’accanimento terapeutico”.
L’Italia è sempre alla ricerca di complotti fino a deformare spesso la realtà per quello che è, ma l’ipotesi che dietro le vicissitudini giudiziarie di Craxi, al di là dei suoi errori e delle sue colpe, ci fosse la manina degli ambienti conservatori americani è un’ipotesi peregrina o, secondo Lei, ha qualche fondamento?
“Non si può escludere niente, ma per sostenere l’esistenza di interferenze americane sulla caduta di Craxi bisognerebbe dimostrarlo con prove certe che allo stato non si conoscono. Mi domando anche perché gli Stati Uniti avrebbero dovuto puntare a destabilizzare Craxi e l’Italia. Per fargli pagare la prova di indipendenza dimostrata in occasione dei fatti di Sigonella? Tutto può essere ma, ripeto, occorrono prove certe e non solo supposizioni per avvalorare ipotesi”.
A tanti anni dall’avventura politica di Craxi e dei suoi governi, quali sono stati, in buona sostanza, i tratti più caratterizzanti di quella esperienza e quali quelli che mancano di più al riformismo italiano di oggi?
“Come ho detto prima, la stagione di Craxi sarà ricordata dagli storici soprattutto per il suo generoso ma vano tentativo di rinnovare, con il sostegno di idee di molti intellettuali, di rinnovare la sinistra in chiave europea e riformista e di portarla unita al governo: da quì nacque l’idea della Grande Riforma alla quale però il Pci si oppose. Così il rinnovamento di Craxi si realizzò solo in piccola parte ma non centrò gli obiettivi di fondo”.
Al di là delle opposizioni di Dc e Pci, che cosa è mancato al riformismo craxiano per vincere la sua sfida?
“Mancò l’esatta comprensione dello stato dell’economia italiana del ventennio che va dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta e dell’importanza per una sinistra moderna ed europea di abbandonare una visione statalista ed assistenziale dell’economia per individuare un corretto rapporto tra Stato e mercato”.
In effetti, la politica economica e la politica industriale di Craxi fu molto meno innovativa di quanto potesse apparire: uso eccessivo della spesa pubblica, lievitazione del debito pubblico, culto dello Stato imprenditore, molte ingerenze nelle aziende pubbliche e avversione per le privatizzazioni come emerse dal clamoroso divieto del Psi alla vendita della Sme dall’Iri a Carlo De Benedetti. Concorda con questa analisi?
“Certamente sì. Anziché sostenere che in economia bisogna aprire le porte al mercato ogniqualvolta fosse possibile e dare invece la precedenza allo Stato solo se necessario, il Psi – come anche il Pci – restò legato a vecchie concezioni e non comprese che certe scelte – come quelle delle privatizzazioni – non erano il frutto di preferenze ideologiche liberiste ma di necessità, perché l’Italia aveva l’acqua alla gola e molte aziende pubbliche non stavano più in piedi. Da questo punto di vista il caso Sme fu emblematico della deriva a cui può portare l’eccessiva fiducia nello Stato imprenditore e spesso un po‘ troppo impiccione, al di là degli errori di comunicazione che ci possono essere stati nel progetto di vendita della Sme. Aver impedito da parte di Craxi la vendita della Sme a De Benedetti fu un errore, comprovato dal fatto che non si riuscì a trovare un compratore migliore e che non si aprì un futuro più luminoso per l’industria alimentare italiana. Questo ovviamente non vuol dire che tutta la politica economica di Craxi fu sbagliata e anzi il coraggio di superare la scala mobile, anche a costo di un duro scontro con il Pci e con la Cgil, fu certamente un suo merito sulla strada della modernizzazione delle relazioni industriali”.
Un altro punto debole che viene attribuito alla stagione craxiana è l’ambiguità nella lotta al terrorismo scoppiata soprattutto durante il caso Moro con la messa in discussione da parte del Psi di Craxi della politica della fermezza e le strizzatine d’occhio ad ambienti estremisti in vista di un’improbabile liberazione dello statista democristiano. Qual è oggi il suo parere?
“Resto convinto della validità della strategia della fermezza da parte dello Stato ma mi sono sempre domandato se, di fronte a una tragedia come quella del caso Moro, lo Stato stesso non potesse fare di più”.
Sia come sia, tra Craxi e il Pci l’amore non sbocciò proprio mai: chi porta le responsabilità maggiori della guerra a sinistra? Craxi o Berlinguer e perché?
“Mi spiace dirlo ma la responsabilità maggiore della rottura a sinistra fu senz’altro del Pci. A comprovarlo c’è un libro scritto da Tonino Tatò, il fedele consigliere di Enrico Berlinguer, che si intitola “Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer. 1969-1984” edito da Einaudi, in cui l’autore conferma che al vertice del Pci e in Berlinguer c’era fin dall’inizio un’avversione radicale al Psi di Craxi, che veniva considerato il capo di una banda di avventurieri che aveva provocato una mutazione genetica di un partito storicamente della sinistra com’era il Psi. Questa pregiudiziale anti-Craxi crebbe e si rafforzò nel tempo ma non nacque in seguito all’azione di governo di Craxi e nemmeno in seguito al suo saggio anti-leninista in nome di Proudhon, ma si manifestò subito dopo l’ascesa di Craxi alla segreteria del Psi con la svolta del Midas del luglio del 1976. Ricordo che negli ultimi anni ’70 Adalberto Minucci fu incaricato di condurre una consultazione riservata sugli orientamenti del gruppo dirigente del Pci nei confronti di Craxi e il risultato fu nettamente negativo per il leader socialista, che veniva ritenuto un nemico e un avversario”.
Ma nel Pci di allora c’era qualcuno, oltre a Lei, che pensava che bisognasse fare l’impossibile per riaprire il dialogo a sinistra? O forse anche voi miglioristi non osaste abbastanza?
“Certamente Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, e, finché restò nel Pci, Napoleone Colajanni oltre al segretario della Cgil Luciano Lama, si spesero per tenere aperte le porte del dialogo con i socialisti, ma con scarsi risultati e senza mettere mai in discussione fino in fondo i presupposti ideologici del Pci, malgrado gli appelli di Norberto Bobbio. Forse noi miglioristi non mostrammo sufficiente coraggio ma la chiusura antisocialista di Berlinguer era netta, tant’è che, in risposta a Napolitano, disse apertamente che il Pci era comunista e non sarebbe mai diventato socialdemocratico. E nel congresso del Pci del marzo ’89 Walter Veltroni, in risposta al Manifesto socialista lanciato da Craxi, proclamò dalla tribuna che “noi non siamo socialisti né socialdemocratici ma siamo comunisti”. La stragrande maggioranza del Pci, anche dopo la morte di Berlinguer, non era disponibile a discutere un progetto di unità con i socialisti”.
Il titolo del nuovo libro su Craxi di Claudio Martelli – L’antipatico – fa pensare che per Craxi ieri come per Renzi oggi il carattere e l’antipatia personale siano in politica più determinanti dei contenuti stessi dell’azione politica: è davvero così? O forse ha ragione il politologo Angelo Panebianco quando sostiene che l’Italia non ama i leader forti e decisionisti?
“Credo che Panebianco abbia perfettamente ragione. Il carattere personale dei leader conta ma la verità è che l’Italia è un Paese che non ama chi prova davvero a fare le riforme. Siamo un Paese così, senza riforme e senza rivoluzione, e i risultati si vedono”.