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Booking-alberghi, via la parity rate: ecco le tappe della vicenda

Alla fine l’hanno spuntata, almeno per il momento, gli albergatori: l’emendamento “Booking” al disegno di legge sulla concorrenza, approvato ieri (quasi all’unanimità) dalla Camera, ha stabilito chiaro e tondo che “saranno nulle le clausole che obbligano gli albergatori a non praticare alla clientela finale prezzi e condizioni migliori rispetto a quelli praticati dalla stessa impresa tramite intermediari terzi, anche online, indipendentemente dalla legge regolatrice del contratto”.

Via dunque la cosiddetta parity rate, che già in parte era stata ridimensionata dall’Antitrust in primavera, riconoscendo ai singoli alberghi la possibilità di pubblicare prezzi diversi ma solo sulle varie OTA (piattaforme di prenotazione online come appunto Booking, che ha la fetta di mercato più grande in Europa, ma anche Expedia, etc) e non sul sito della struttura ricettiva. La parity rate era stata oggetto di una diatriba iniziata quasi un anno e mezzo fa quando, il 7 maggio 2014, quando Federalberghi segnala all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (e lo stesso fanno i colleghi della Francia, dove nel frattempo è già passata la nuova legge voluta direttamente dal ministro dell’Economia Emmanuel Macron) le cosiddette “Most Favoured Nation Clauses” applicate da Booking e Expedia, ossia le clausole che vincolano le strutture ricettive a non offrire i propri servizi alberghieri a prezzi e condizioni migliori tramite altre agenzie di prenotazione online e, in generale, tramite qualsiasi altro canale di prenotazione, inclusi i siti internet degli alberghi.

Lo scorso 21 aprile l’Antitrust italiana, così come quella francese e svedese, accoglie le soluzioni proposte spontaneamente dal portale olandese (Booking è una società olandese che fa capo al gruppo statunitense Priceline), e lo stesso fanno gli organi di Francia e Svezia: sì alla parity rate, ma solo per i siti internet degli alberghi, mentre attraverso altri canali (OTA, email, telefono) gli hotel potevano offrire tariffe inferiori a quelle concordate con i portali. “Un buon compromesso – commentò Andrea D’Amico, Regional Director per l’Italia di Booking.com -: le decisioni degli organi di Italia, Francia e Svezia sono state anche approvate dalla Commissione Ue”. Federalberghi, tramite le parole del Direttore generale Alessandro Nucara, ribattè citando invece il caso della Germania, dove un giudice aveva già “stabilito la completa parity rate, con sentenza passata in giudicato”.

Alla fine il Parlamento è andato oltre la decisione dell’Antitrust, e grazie a un emendamento del deputato Tiziano Arlotti (Pd) ha sdoganato senza se e senza ma che gli alberghi – qualora il ddl concorrenza, che ora passa al voto del Senato, diventi legge – potranno offrire le camere a tariffe più basse rispetto a quelle proposte da Booking.com e da altri siti di intermediazione, e questo anche sul loro sito internet. La spuntano dunque gli albergatori, quelli ufficiali, forse “vecchiamente” tradizionali ma che difendono la categoria nel suo complesso. “La clausola che impedisce agli alberghi di praticare tariffe inferiori sul proprio sito danneggia i piccoli”, ha tuonato per mesi Federalberghi. “Offriamo visibilità a tutti e dei servizi che i piccoli albergatori non potrebbero permettersi”, replicarono da Booking.

In realtà quella visibilità si paga, e anche a un prezzo abbastanza salato: non è mistero che per ottenere le posizioni migliori la fee imposta da Booking supera il 20% e può anche avvicinare il 30%. “Ma è solo ed esclusivamente per scelta dell’albergatore. A quelli che pagano meno vengono comunque offerti tutti i servizi, compresi il web marketing e l’assistenza in 42 lingue”, commentò qualche tempo fa su FIRSTonline Andrea D’Amico. In ogni caso, anche se pochi lo sanno, il modo per aggirare la parity rate nelle modalità stabilite dall’Antitrust già c’era: l’accordo prevedeva infatti la totale “parity avalaibility”, ossia la piena libertà per gli alberghi di stabilire il numero e la tipologia di camere da porre in vendita sui portali, senza l’obbligo di riconoscere condizioni preferenziali alle OTA. In altre parole, un hotel può già mettere camere standard su Booking e camere economy sul proprio sito, applicando dunque – di fatto – prezzi inferiori, anche se (in teoria) commisurati a una diversa qualità del servizio offerto.

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