In principio fu lo “spread”, termine quasi ignoto al grande pubblico prima dell’emergenza del 2011, quando la parola divenne d’uso comune. Quasi una sorta di ideale linea del Piave nella speranza che la diga a protezione del debito non cedesse alla pressione delle vendite sui titoli di Stato. Tanto che il varo del Btp Italia fu accompagnato da appelli stile “oro alla patria”. Ora, sul fronte del debito pubblico, le cose vanno assai meglio, soprattutto grazie all’azione di Mario Draghi. Nel 2016 il Tesoro chiederà ai mercati 30 miliardi in meno rispetto ai 410 miliardi del 2015, anno record in cui si è registrato un costo di emissione pari a 0,70%, minimo di sempre, e quasi la metà rispetto a 1,35% del 2014, grazie al varo del programma di quantitative easing della Banca centrale europea.
Una buona notizia che ha fatto cadere in disuso l’uso del termine spread, ormai meno diffuso di juke box o hoola hop. Ma non ci sono limiti ai neologismi finanziari. Senior e junior bond sono ormai di uso corrente, così come lo furono per molti mesi subprime e pure Ninjia bond. E lo saranno ancor di più nell’epoca del bail in, ovvero il “salvataggio interno” delle banche che prevede che a pagare il conto per le insolvenze bancarie siano azionisti, obbligazionisti e depositi oltre i 100 mila euro prima di far ricorso al denaro pubblico. Una novità annunciata ma che è caduta come un fulmine a ciel sereno sui risparmiatori. Di qui la necessità di aggiornare il vocabolario, e di attrezzarsi per una stagione di nuove insidie.
Oggi, dopo il tracollo di Banca Popolare dell’Etruria, Banca Marche, Carife e Cassa di Chieti (chi l’avrebbe detto mai che Chieti avrebbe spinto il governatore della Banca d’Italia a esibirsi nello show di Fabio Fazio per tranquillizzare gli italiani..) tentare di vendere un bond subordinato (o junior bond) ad un risparmiatore è probabilmente più difficile che piazzare un frigorifero al polo (nonostante l’effetto serra). Ma nei prossimi mesi è quello che le banche italiane dovranno fare.
Cos’è un debito subordinato? Si tratta di una tipologia di debito le cui caratteristiche lo rendono intermedio tra l’investimento azionario e l’investimento obbligazionario senior. E che in caso d’insolvenza porta alla perdita del capitale. Ci sono molti tipi (almeno otto versioni) di debito subordinato: il più semplice è il cosiddetto debito subordinato plain vanilla, seguito dal subordinato ibrido, dal subordinato junior, poi ancora dal debito con capitale rimborsato con svalutazioni, fino ad arrivare al subordinato high trigger, cioè col “grilletto alzato”. Basta la parola per comprendere come alcune di queste emissioni siano adatte solo a soggetti pronti a sopportare livelli di rischio assai elevato.
Il prossimo anno giungeranno a scadenza in Italia bond subordinati per 4,63 miliardi di euro complessivi, dice la società di consulenza Prometeia in base ai dati Snl financials. Le scadenze del 2015 ammontavano a poco più di 50 milioni. . “Molte banche – dice Lea Zicchino di Prometeia – soprattutto medie come Credem, che negli ultimi tempi hanno emesso solo covered, ora stanno avviando nuovi programmi Emtn o rinnovando i vecchi, per prepararsi a nuove operazioni senior o subordinate”.
L’importo dei bond rinnovati dipenderà da diversi fattori. In primo luogo le soglie Srep stabilite per le singole banche e la conseguente necessità di rafforzamento patrimoniale di queste ultime; poi saranno fondamentali i prossimi requisiti previsti dalla direttiva Mrel (Minimun Requirement Eligible Liabilities), sulla quota minima richiesta di passività aggredibili dal bail-in. “La sensazione – continua Zicchino intervistata da Reuters – è che comunque le banche tenderanno a rifinanziare i subordinati in scadenza” afferma Zicchino. “Tra l’altro più subordinati emetti, più tieni al riparo i tuoi senior dal rischio di bail-in, contenendone il costo”.
Ma non sarà facile. Le conseguenze? Più o meno il 50% delle obbligazioni delle banche italiane è detenuto dalla clientela retail. Un caso unico in Europa che rappresenta oggi un grosso handicap. Sui subordinati le banche maggiori possono rivolgersi agli investitori istituzionali e non avranno grossi problemi; per le piccole, che non hanno tale possibilità, chiaramente il canale dei subordinati va a esaurirsi, quindi dovranno fare maggiore affidamento sugli aumenti di capitale.
In termini macro, il primo effetto sarà quello di rendere più oneroso il costo del funding per il sistema. Tutto quello che è senior o subordinato andrà a costare un po’ di più: meno per le banche più solide, di più per le altre. Come sta già avvenendo. Non è tanto una questione di domanda e offerta, quanto si generale percezione del rischio su questi prodotti.
Basta questo per capire come la capacità di collocare questi bond sul mercato sia un problema strategico, di portata generale. Se le banche dovessero rinunciare a questo canale senza sostituirlo con altri (cosa tutt’altro che banale nell’attuale contesto) diciamo per un importo pari al 50 per cento, ciò comporterebbe una riduzione approssimativa del credito al sistema economico di non meno di 300 miliardi.
Di qui la necessità di conciliare due esigenze: da una parte la necessità di non azzerare uno strumento utile, dall’altra quella di non scaricare i rischi su risparmiatori inermi. Limitare il collocamento ai soli clienti istituzionali è la soluzione? È chiaro che si tratta di titoli destinati preferibilmente a questi attori, ma impedire del tutto l’acquisto ai singoli risparmiatori avveduti e informati potrebbe essere inopportuno. Nella larghissima parte dei casi di obbligazioni subordinate bancarie, del resto, il rendimento assicurato in questi anni è stato eccellente. Basti osservare le performance che ancora si possono ottenere con questo tipo di strumenti per la stragrande maggioranza delle emissioni subordinate : coloro i quali hanno investito in questi titoli hanno ottenuto sinora ottime soddisfazioni.
Spiace fare la parte del grillo parlante in mezzo a tanto vociare di grilli urlanti. Ma quando gli strumenti rendevano (o rendono tuttora) il doppio o il triplo di quanto fornito dai titoli privi di rischio (il 14,5% offerto per i subordinati di Banca Marche) è difficile pensare che il risparmiatore fosse del tutto ignaro del livello di rischio sopportato e dunque sempre meritevole del salvataggio a carico del contribuente.Ciò non toglie che la trasparenza deve essere assai maggiore.
Un primo passaggio auspicabile è il ricorso al rating. È un caso che nessuna delle obbligazioni subordinate andate insolventi ne fosse dotata? Richiedere obbligatoriamente il rating per le emissioni rischiose destinate ai risparmiatori dovrebbe rappresentare l’elemento discriminante per consentire o meno il collocamento sul retail. Il rating deve servire in primis al consulente finanziario per informare correttamente il risparmiatore. Se questi non lo rende edotto o, peggio, nasconde l’informazione, allora sì che potremo parlare di risparmiatori truffati. Un secondo punto fondamentale è spiegare se il titolo sia oggetto di quotazione. Essere quotati sul sistema multilaterale di negoziazione (Euro TLX), sul mercato telematico delle obbligazioni (Mot) è un fattore di trasparenza e di riduzione del rischio associato all’investimento.
L’alternativa, scelta dal legislatore inglese, prevede il divieto di collocamento prsso il retail. Oppure la soluzione sta nell’alto taglio delle emissioni (non meno di 100 mila euro) di modo da ridurre l’impatto per i portafogli più deboli. Ma l’esperienza inglese torna utile sotto un altro profili: il Case act 2014, nella presunzione che la previdenza integrativa è ormai un fattore strategico, ha previsto, accanto alla formazione scolastica sulla gestione del risparmio, anche l’istituzione presso le contee di uffici pubblici in cui consulenti stipendiati che forniscono opera di consulenza sul saving planning per impedire che un risparmiatore scelga forme di investimento inappropriate per le sue esigenze.