La necessità di trovare risorse per finanziare i grandi deficit provocati dall’emergenza Coronavirus, quando si esauriranno le condizioni monetarie espansive, sta alimentando da qualche settimana l’illusionismo finanziario. Figli di questa spasmodica ricerca e delle conseguenti illusioni sono i cosiddetti bond perpetui; bond, cioè, senza scadenza, che corrispondono cedole fisse teoricamente all’infinito. Ne hanno parlato a marzo gli economisti bocconiani Francesco Giavazzi e Guido Tabellini sul sito lavoce.info, poi è toccato al premier spagnolo, Pedro Sanchez, proporre ad aprile di emettere bond perpetui per finanziare un Recovery fund da 1,5 trilioni di euro e, ultimamente, è stato il presidente della Consob, Paolo Savona a rilanciare, in occasione del suo incontro con il mercato finanziario di martedì scorso, i bond perpetui come “misura di guerra”, circostanza a cui Covid-19 viene spesso assimilato.
Ma i sogni finiscono all’alba e i miracoli non sono dietro l’angolo. Ci sarà una ragione se di bond perpetui oggi non ce ne sono in giro per il mondo, anche se ci sono invece i bond a 100 anni che ne sono parenti prossimi. Ma, come scriveva sabato scorso sul Foglio Lorenzo Bini Smaghi, già membro del board della Bce e oggi presidente di Societé Genérale, non è un caso che di solito si eluda la domanda su “chi paga?” i bond perpetui e che l’idea di realizzare un’operazione win-win per lo Stato (e dunque per i contribuenti) e per i risparmiatori resti una chimera. O perché i tassi sono destinati a crescere e la convenienza per i contribuenti a calare o perché a correre il serio rischio di un vero e proprio boomerang sono i risparmiatori. “Senza una convincente risposta al legittimo quesito su chi paga – scrive Bini Smaghi – si alimenta il timore che il costo sarà elevato, non solo per le future generazioni. E questa infatti è la storia degli ultimi vent’anni, che rischia di ripetersi”.
Un’accurata ricognizione dei pochi pregi e dei molti difetti dei bond perpetui, dei loro rischi e delle loro opportunità, è stata condotta qualche settimana fa per l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, noto come Osservatorio Cottarelli, da Giampaolo Galli e Federica Paudice. “Apparentemente l’emissione di titoli senza rimborso e ad un tasso relativamente basso – si legge nel report dei due economisti – sembra allettante e ha l’effetto di spalmare i costi della crisi anche sulle generazioni future. La teoria e la storia , antica e recente, dei titoli a lunghissima scadenza o addirittura perpetui – scrivono Galli e Paudice – ci mettono però in guardia circa i rischi di questi titoli“, che sono sostanzialmente quattro: rischi di mercato, legati alle fluttuazioni dei tassi; rischi di default, rischi di perdita di potere d’acquisto a causa dell’inflazione e rischi di illiquidità. E per compensare tali rischi è probabile che il tasso d’interesse sui titoli irredemibili sia più alto di quello prevalente per titoli con una scadenza“. Il primo rischio investe lo Stato e dunque i contribuenti, gli altri riguardano gli investitori.
Ma il pregio del report di Galli e Paudice è che non si limita ad esaminare le diverse ipotesi teoriche sottese ai titoli perpetui o a 100 anni ma è soprattutto corredato di una rassegna analitica di quattro esperienze concrete – due due giorni nostri e due del passato – di bond a lunghissimo termine. Tutti fallimentari.
Per restare ai nostri tempi, il primo caso ricordato è quello dell’Austria che nel settembre del 2017 ha lanciato sul mercato un’obbligazione a 100 anni a un tasso originariamente del 2,1% e poi nel giugno del 2019 dell’1,171%. Inizialmente chi comprò il bond nel settembre 2017 a 100 euro realizzò un guadagnò enorme in conto capitale perché il prezzo salì a 210 euro (con rendimento dello 0,61%), ma poi seguì subito una flessione a 168 euro con una perdita del 20% in soli due mesi.
Il secondo esempio recente di bond perpetui è quello del cosiddetto Matusalem argentino, che sembrava un grande successo quando Buenos Aires riuscì a collocare titoli in dollari a 100 anni per 2,75 miliardi al tasso cedolare del 7,125%. Ma nell’aprile scorso, quando si andava profilando il rischio default, il prezzo di quel bond emesso a 100 era sceso a 29 centesimi, corrispondente a un rendimento del 27%. A settembre del 2019 il Matursalem bond argentino aveva già perso il 55%.
Per il passato il report di Galli e Paudice prende in considerazione il primo bond perpetuo emesso dall’Inghilterra a metà del ‘700 e quello lanciato in Italia nel 1926 dal Fascismo, attraverso il consolidamento del debito. Il governo britannico creò nel 1751 il primo mutual (o consol) bond che garantiva una rendita del 3% sul valore pari a 100 sterline all’infinito e che ebbe una larga diffusione. Ma la sua fine fu ingloriosa: nel 2015, quando sul consol calò il sipario, chi avesse ereditato quel titolo acquistato a 100 sterline nel 1751, si sarebbe trovato in tasca – a causa dell’inflazione – solo un valore pari a 0,5 sterline per ogni 100 acquistate all’origine.
Infelice fu anche l’esito del perpetual bond littorio lanciato nel 1926 da Mussolini, attraverso il consolidamento forzoso dei titoli del Tesoro con durata massima di 7 anni in titoli con cedola semestrale, senza rimborso e rendimento del 5%. L’obiettivo era quello di rivalutare la lira (la famosa Quota 90) ma dopo pochi mesi il deprezzamento del bond perpetuo era già del 30% con gravi perdite per banche e risparmiatori. Nel 1934 nuova conversione forzosa dei bond a 25 anni. Disastroso il risultato finale dell’operazione del regime fascista: 100 lire investite nel debito pubblico nel 1926 valevano vent’anni dopo solo 3 lire.
Talvolta i numeri sono più eloquenti delle parole.