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Bologna, Ristorante Diana: la storia della cucina passa da qui

La “bolognesità”, scrive la Treccani, è l’essere, il sentirsi bolognese, o profondamente affine ai cittadini bolognesi, alle loro tradizioni e ai loro costumi. Ecco, se qualcuno vuole trasformare questo concetto astratto in un’esperienza sensoriale e vuole toccare, annusare, assaggiare questa “bolognesità” deve, per forza, fare tappa al ristorante “Diana”. 

Il Diana è un’istituzione cittadina da 110 anni, un pezzo di storia, un angolo di mondo che ne ha viste tante e ne ha conosciuti tanti. La Belle Epoque e le guerre mondiali, le gran soirée e le contestazioni del ’77, il Bologna FC che vince il campionato e quello che va in serie B. Sandro Pertini adorava lo zampone ma beveva solo birra. Federico Fellini, appassionato di tortellini e bollito, amava disegnare sui tovaglioli di stoffa. Alla tavola del Diana hanno mangiato il Re del Belgio e i senza fissa dimora; Gazzoni e Montezemolo; Casini e Spadolini; Indro Montanelli e Giorgio Guazzaloca; Vittorio e Alessandro Gassman, Marcello Mastroianni, Patty Smith, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Luca Carboni e chi più ne ha più ne metta, perché basta pescare nella memoria.

In mezzo al diluvio di fast food che allaga la città, il Diana è lo scrigno della cucina locale, l’arca che mette in salvo tanti tesori. Basti ricordare i tortellini, le tagliatelle al ragù, la cotoletta alla bolognese (impanata e fritta e arricchita di prosciutto e formaggio); il bollito con le salse; i quadrucci in brodo; il fritto misto all’italiana. I camerieri indossano la stessa divisa bianca di un secolo fa, sotto l’occhio attento del grande specchio in fondo alla sala e dell’orologio storico. Da alcuni mesi però anche un’istituzione come il Diana ha dovuto fare spazio alla modernità: la proprietà del locale originario infatti è per metà della famiglia Finzi Contini di Milano, che nel 2018 ha deciso di fare cassa con una grande catena di biancheria intima, offrendole in affitto locali e vetrine che si affacciano sulla via Indipendenza, il lungo corso che dalla zona stazione conduce a Piazza Maggiore. Sotto il grande portico resta solo l’insegna “Ristorante”, come un’impronta di nostalgia, che guarda dall’alto in basso mutandine e reggipetti in mostra. L’accesso al Diana oggi è svoltato l’angolo, sulla via Volturno e in mezzo alla vecchia grande sala da pranzo è sorto un muro.

“Abbiamo perso circa 50 coperti e ci siamo ristretti a una novantina – racconta il comproprietario Eros Palmirani, che iniziò la sua carriera da commis al Diana nel 1959 – ma non abbiamo perso la nostra clientela. Anzi, quando, per un momento abbiamo pensato di chiudere bottega per sempre, nella città c’è stata una vera levata di scudi”. Il sapore retrò del locale è rimasto, anche se la vita sembra un po’ meno dolce nel nuovo millennio. Forse ci sono troppi Master Chef e cucine iperboliche.

“A tutti i giovani che ambiscono a fare i cuochi – dice Palmirani – suggerisco d’imparare per prima cosa le basi. La storia delle cucina è importante e ci vuole umiltà. Il nostro chef, Silvano Librenti è con noi da quand’era un ragazzo e faceva l’assistente a Mauro Fabbri. Stando ai fornelli ha imparato tutti i segreti, che ancora oggi rendono eccellenti le nostre proposte. Non tutti possiamo diventare Marcello Marchesi o Stefano Bottura, non tutti siamo artisti, ma con il lavoro, la buona volontà, la passione, possiamo diventare dei grandi artigiani e lasciare qualcosa di vero e importante a chi viene dopo di noi”. 

Il legame del Diana con gli usi bolognesi è così stretto che il menù, accanto ai piatti fissi, offre ogni giorno una proposta diversa ispirata alle ricette che si facevano in casa nei vari giorni della settimana. Per esempio il martedì c’è la gramigna con la salsiccia, il mercoledì gli gnocchi di patate al pomodoro, il giovedì i garganelli, che nacquero in brodo e ora vengono fatti anche al forno, il venerdì gli spaghetti al tonno. Il pesce, presente in varie forme, viene comprato a Porto Garibaldi e pescato rigorosamente nell’Adriatico. Ci sono le frattaglie, ma anche il tartufo. Insomma molti palati possono uscire soddisfatti e il rapporto qualità-prezzo non sembra più così proibitivo, visti i conti stellari raggiunti in questi anni dai ristoranti stellati.

Al Diana è di casa anche il buon Lambrusco, preferibilmente di Sorbara, un nettare leggero, umile eppure dotato di tante qualità, ottimo con le carni grasse, che a Bologna, patria della mortadella, non mancano mai. Di mortadella, tra l’altro, nello storico ristorante se ne può mangiare di squisita, visto che la proprietà è anche della figlia di Ivo Galletti, il lungimirante creatore di Alcisa, azienda passata anni fa a Grandi salumifici italiani. Galletti oggi ha 94 anni, ma quasi tutti i giorni mangia al Diana, forse per testimoniare che la classica cucina emiliana fa bene al gusto, ma anche alla salute.

Il locale è stato recentemente raccontato da Mauro Bassini nel libro “Diana – Bologna in un ristorante” edito da Minerva.

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