X

Bologna, 2 grandi mostre: Banksy e Edward Hopper

Sul finire degli anni Sessanta del ‘900, nuove pratiche artistiche urbane sono apparse in diverse città del mondo occidentale, con l’intento di ridefinire la nozione di arte nello spazio pubblico. Sotto l’etichetta street art, riuniamo oggi diverse forme di arte pubblica indipendente, che riprendendo i codici della cultura pop e del graffittismo, utilizzano il dialogo tra la strada e il web per dare vita a forme decisamente innovative.
Dopo dieci lustri, il fenomeno socio-culturale del graffitismo urbano ha guadagnato una rilevanza unica nel panorama della creatività contemporanea: le opere di artisti come Banksy hanno invaso le maggiori città del mondo, e dagli anni Ottanta a oggi la stessa Bologna si è affermata come punto di riferimento per molti artisti – da Cuoghi Corsello a Blu, passando per Dado e Rusty – che hanno scelto proprio la città Felsina per lasciare il loro segno sui muri.
Dal 18 marzo al 26 giugno 2016 questa forma d’arte è raccontata nella sua evoluzione, interezza e spettacolarità nelle sale di Palazzo Pepoli – Museo della Storia di Bologna con una grande mostra intitolata Street Art – Banksy & Co.
L’evento porterà inoltre per la prima volta in Italia la collezione del pittore statunitense Martin Wong donata nel 1994 al Museo della Città di New York, presentata nella mostra City as Canvas: Graffiti Art from the Martin Wong Collection, a cura di Sean Corcoran curatore di stampe e fotografie del Museo.
Come mostra dentro la mostra, la sezione vuole individuare la New York del 1980, nella quale si potranno ammirare lavori dei più grandi graffiti writers e street artists statunitensi come Dondi White, Keith Haring, e Lady Pink.
Il progetto nasce dalla volontà del Professor Fabio Roversi-Monaco, Presidente di Genus Bononiae, e di un gruppo di esperti nel campo della street art e del restauro con l’obiettivo di avviare una riflessione sui principi e sulle modalità della salvaguardia e conservazione di queste forme d’arte. Il progetto di “strappo” e restauro, una sperimentazione condotta dal laboratorio di restauro Camillo Tarozzi, Marco Pasqualicchio e Nicola Giordani su alcuni muri bolognesi di Blu – uno dei dieci street artists migliori al mondo come riporta una classifica del The Guardian del 2011 -, quali il grande murale delle ex Officine di Casaralta (Senza titolo, 2006) e il murale della facciata delle ex Officine Cevolani (Senza titolo, 2003) destinati altrimenti alla demolizione, è parso come un’occasione propizia per una mostra che vuole contribuire all’attuale dibattito internazionale: da anni, infatti, la comunità scientifica pone l’attenzione sul problema della salvaguardia di queste testimonianze dell’arte contemporanea e della loro eventuale e possibile “musealizzazione” a discapito dell’originaria collocazione ma a favore della loro conservazione e trasmissione ai posteri. La mostra Street Art – Banksy & Co. racconta per la prima volta le influenze sulle arti visive che la street art ha avuto e continua ad avere, passando per quell’estetica che nacque a New York negli anni ‘70 grazie alla passione per il lettering e il name writing di giovani dei quartieri periferici della città. Espone le opere di autori associati al graffiti writing e alla street art, per creare lungo il percorso le assonanze tra le diverse produzioni e spiegare il modo in cui sono state recepite dalla società.
Il patrimonio artistico è protagonista dell’inedita esposizione ospitata a Palazzo Pepoli, che con la sua corte coperta riproduce quella che potrebbe essere una porzione di città, luogo ideale per raccontare una tappa importante della storia di Bologna.
Il fine utopistico e l’intento sono proteggere e conservare questa forma d’arte e portare le attuali politiche culturali a riconoscere l’esigenza di una ridefinizione degli strumenti d’intervento nello spazio urbano perché i graffiti – oggi più di ieri – influenzano il mondo della grafica, il gusto delle persone, l’Arte intera di questo secolo.

C’è chi lo ritiene un narratore di storie e chi, al contrario, l’unico che ha saputo fermare l’attimo – cristallizzato nel tempo – di un panorama, come di una persona. È stato lo stesso Edward Hopper (1882-1967) – il più popolare e noto artisti americano del XX secolo – uomo schivo e taciturno, amante degli orizzonti di mare e della luce chiara del suo grande studio, a chiarire la sua poetica: “Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere”. Questa seconda mostra che apre dal 25 marzo al 24 luglio 2016 a Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni di Bologna, dagli acquerelli parigini ai paesaggi e scorci cittadini degli anni ‘50 e ‘60, attraverso più di 60 opere tra cui celebri capolavori South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi (come lo studio per Girlie Show del 1941) che celebrano la mano di Hopper, superbo disegnatore: un percorso che attraversa la sua produzione e tutte le tecniche di un artista considerato oggi un grande classico della pittura del Novecento.
Prestito eccezionale è il grande quadro intitolato Soir Bleu (ha una lunghezza di circa due metri), simbolo della solitudine e dell’alienazione umana, opera realizzata da Hopper nel 1914 a Parigi.

L’esposizione è curata da Barbara Haskell – curatrice di dipinti e sculture del Whitney Museum of American Art – in collaborazione con Luca Beatrice. Il Whitney Museum ha ospitato varie mostre dell’artista, dalla prima nel 1920 al Whitney Studio Club a quelle memorabili del 1960, 1964 e 1980. Inoltre dal 1968, grazie al lascito della vedova Josephine, il Museo ospita tutta l’eredità dell’artista: oltre 3.000 opere tra dipinti, disegni e incisioni.

Related Post
Categories: Cultura