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Boeri: “Lo Stato in campo: ok per scuola e sanità, meno bene per l’economia”

Imagoeconomica

Il ritorno dello Stato nell’economia è giusto o sbagliato? Ma di che ruolo dello Stato parliamo? Quanto potrà ancora durare il ruolo preminente dello Stato e come renderlo più efficiente? Di questo si parla in questi giorni alla sedicesima edizione del Festival dell’Economia di Trento, che torna parzialmente in presenza dopo lo stop a causa della pandemia. FIRSTonline ne ha discusso direttamente con il direttore scientifico dell’evento trentino, l’economista Tito Boeri: ecco l’intervista.

Professore, il Covid ha costretto lo Stato a una forte presenza nella vita dei cittadini e nell’economia dei Paesi. E’ stato giusto e durerà?

“Negli ultimi tempi lo Stato è stato molto invasivo, anche in economia, e aveva senso per via delle circostanze del tutto eccezionali imposte dalla pandemia. Secondo me, pur vedendo la fine del tunnel, ci dovremo abituare al fatto che lo Stato continuerà per un periodo ad essere molto presente. Il problema casomai è come rendere questo intervento più efficiente. Penso ad esempio alla regolarizzazione degli immigrati a tutela della loro salute: questa scelta era legittima, ma oggi solo il 14% degli aventi diritto ha avviato le procedure”.

Lei però ha parlato anche di “ritirata”. In quali settori secondo Lei lo Stato dovrebbe ritirarsi e in quali invece dovrebbe invece avere una maggiore presenza?

“In alcuni ambiti come la scuola, lo Stato deve assolutamente essere presente per garantire il diritto allo studio, così come nella sanità, dove abbiamo visto che il contributo del privato non è poi stato così importante e che anzi il ruolo del pubblico è stato legittimato. Quello che invece è meno opportuno è l’intervento diretto nell’economia”.

A questo proposito Lei si è anche detto contrario alla sola tentazione di far nascere una nuova IRI, o una banca pubblica come chiesto dai 5 Stelle.

“Per quanto riguarda l’IRI, anche dal punto di vista storico abbiamo ampiamente avuto la dimostrazione del fatto che a lungo andare ha impedito la crescita dell’iniziativa privata. A volte l’obiezione è: ma il ruolo dello Stato è quello di garantire i fondi a lungo termine, perché gli imprenditori di solito hanno una visione più a breve. Allora io rispondo che esistono anche gli investitori istituzionali, come ad esempio i fondi pensione, che ragionano nella logica del lungo periodo. Quello che va evitato è un intervento diretto dello Stato, anche per evitare l’eccessiva ingerenza della politica nell’economia”.

Su questo sarà importante capire il nuovo ruolo della Cdp, dopo il ribaltone voluto dal premier Mario Draghi che ha recentemente sostituito l’amministratore delegato. Che cosa ne pensa?

“Quello sulla Cassa Depositi e Prestiti è un discorso complesso, che va ancora chiarito bene. Vedremo cosa succederà con questa nuova gestione. Certi tipi di operazioni, come ad esempio il finanziamento delle startup, sono legittimi, mentre non va assolutamente bene il salvataggio pubblico di realtà senza alcuna prospettiva”.

Meglio dunque uno Stato più regolatore che gestore. Tra le varie strategie del Governo per rendere l’intervento pubblico c’è quella delle semplificazioni. Lei si è detto scettico: perché?

“Sono d’accordo con le semplificazioni, ma un po’ di scetticismo è inevitabile. Soprattutto quando si parla di fare meno controlli. I controlli in Italia sono già pochi, il problema casomai sono le troppe autorizzazioni richieste ex ante, che portano a continue deroghe. E’ il processo istruttorio di un appalto ad essere troppo complicato, per cui io auspicherei autorizzazioni più semplici da ottenere per sbloccare le attività, ma molti più controlli dopo, per verificare che i termini contrattuali siano stati rispettati”.

Per consentire allo Stato di essere presente e più efficiente, servono però anche delle risorse. Basterà il Recovery Fund?

“E’ vero che adesso arriveranno molti soldi, ma non dobbiamo dimenticarci del problema del bilancio, che rimane. Il debito pubblico aumenterà nei prossimi anni e secondo me già nel medio periodo ci sarà un aumento dei tassi d’interesse, che per un Paese come l’Italia, col livello di debito che ha, è una eventualità pericolosa. Dobbiamo stare attenti”.

Per aumentare le risorse pubbliche si parla in queste settimane di varie soluzioni, ad incominciare dalla tassa minima globale fortemente sponsorizzata dal presidente americano Joe Biden. Lei è d’accordo?

“Si tratterebbe di tassare i capitali e non il lavoro, ma per farlo serve un coordinamento internazionale e non sarà facile, vista la resistenza all’interno della stessa Europa di Paesi come l’Irlanda. A Trento ne abbiamo parlato con il commissario europeo Paolo Gentiloni, che ha ipotizzato il superamento della regola dell’unanimità per far passare questa importante riforma. C’è un clima nuovo in questo senso. Tuttavia, dipende anche da come viene poi distribuito questo gettito aggiuntivo (che alcuni studi quantificano in oltre 200 miliardi per l’Europa, con una tassa ipotetica al 25%, anche se è più probabile che venga fissata al 15%, ndr): Gentiloni ha detto che sarà redistribuito ai vari Paesi in maniera proporzionale, in base al profitto realizzato dall’azienda in quel Paese”.

Riguardo invece alla tassa sull’eredità sui patrimoni milionari, Lei si è schierato a favore ma distinguendosi dalla proposta del segretario dem Enrico Letta.

“La tassa di successione non è tanto una questione di volumi, anche se congegnandola in un certo modo si potrebbe recuperare fino a 1 punto di Pil, come già accade in alcuni Paesi. Sarebbe però primariamente una misura di equità sociale. Soprattutto durante la pandemia i cittadini hanno avuto sorti molto diverse, si sono create situazioni di ingiustizia profonda e poi si è acuito il problema della mobilità sociale, a causa soprattutto della chiusura delle scuole o dello stesso lavoro da remoto, al quale non tutti hanno potuto accedere allo stesso modo. C’è molta disuguaglianza di opportunità, anche se piuttosto che destinando un bonus ai giovani, utilizzerei quelle risorse riducendo i contributi sociali per i giovani fino a 35 anni. Ancora una volta, meglio intervenire sul lavoro che con un aiuto diretto”.

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