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Bnl Focus – Svezia: una forte economia a sostegno del sistema bancario

Un’economia in salute 

Con un tasso di crescita medio del 2,5% nel periodo 1992–2008, la Svezia fa da tempo parte dei paesi economicamente forti della Ue27 (+1,8% la Francia, +1,5% la Germania, +1,3% l’Italia). La crisi economico-finanziaria del 2008-09 e le vicende successive hanno ulteriormente rafforzato questa posizione: posto pari a 100 il Pil nel 2007, a fine 2012 la Svezia risultava a quota 105,2, la Ue27 a 99,3, la Germania a 103,7, l’Italia a 93,0. Gli sviluppi attesi per la parte restante dell’anno in corso e per il 2014 fanno intravedere un ulteriore incremento di questo vantaggio. 

Dopo una recessione nel 2008-09 leggermente più intensa di quanto sperimentato nel resto del continente, la Svezia è riuscita ad alimentare una ripresa solida e continua, risultando così tra i 13 paesi della Ue27 in condizione di evitare una nuova fase di stagnazione/recessione. Nel triennio 2010-12 i consumi privati sono aumentati complessivamente (in termini reali) del 7,8% (+0,5% in media nella Ue27) mentre gli investimenti in macchinari hanno superato il 21% (+6%). La disoccupazione, pur al di sopra della media di lungo periodo (7,4% nel periodo 1992-2008) è comunque ben al di sotto del livello registrato nell’insieme dell’area 2 (nel 2012, 8,0% rispetto al 10,5% nella Ue27 e all’11,4% dell’eurozona). Da almeno venti anni, inoltre, i conti con l’estero risultano largamente in attivo: in rapporto al Pil alla fine dello scorso anno +2,5% il saldo commerciale, +7% quello delle partite correnti.

La previsione di crescita economica è favorevole tanto per l’anno in corso (+1,5% rispetto a -0,1% della Ue27) quanto per il prossimo (+2,5% vs +1,4%). Se però ci fosse necessità di un intervento anticiclico la Svezia ha ampio spazio per realizzarlo: il debito pubblico non arriva al 40% del Pil (quasi 50 punti percentuali meno della media della Ue27), conseguenza di saldi correnti generalmente positivi (quattro sole eccezioni dopo il 2000) o al più negativi in misura molto contenuta (l’ultimo disavanzo pubblico superiore all’1,5% del Pil risale al 1997).

Tra gli aspetti meno favorevoli dello scenario svedese c’è l’elevato livello di indebitamento accumulato da famiglie e imprese. L’esposizione complessiva del settore privato non finanziario risulta (2013) al di sopra del 250% del Pil, un livello anche più elevato di quanto riscontrabile nel Regno Unito o in Svizzera (entrambi intorno al 200%). Il servizio annuo di questo debito è decisamente elevato (nel 2012 oltre il 30% del Pil) e ampiamente superiore al trend di lungo periodo (6 punti percentuali al di sopra della media 1995-2007).

Di questo debito, circa un terzo risulta di competenza delle famiglie, circostanza che pone la Svezia nella parte medio-alta della graduatoria. A mitigare il rischio di instabilità che ne deriva la constatazione (seppure risalente al 2007) che il 57% del debito grava sul primo 20% dei percettori di reddito. La clausola “full recourse” nell’ordinamento svedese contribuisce poi a limitare il numero delle insolvenze. Ovviamente, meno decisiva la considerazione che a questo debito le famiglie svedesi possono contrapporre una ricchezza tre volte superiore, poiché le principali componenti di quest’ultima grandezza (proprietà immobiliari e molte attività finanziarie) sono di valore e/o liquidabilità variabile.

Gli altri due terzi circa dell’esposizione del settore privato non finanziario sono attribuibili alle imprese, con una proporzione rispetto al Pil doppia rispetto alla media Ue (su base consolidata, nel 2010 139% rispetto a 69%). Rispetto ai livelli massimi toccati a metà 2009 il rapporto ha comunque registrato una evidente flessione. Livelli così elevati sono in parte spiegati dalla presenza relativamente ampia di società multinazionali, che attraverso un’intensa attività infragruppo e cross border traggono vantaggio dalla normativa fiscale svedese. Deducendo questo tipo di operazioni il rapporto prima citato scenderebbe al di sotto del 90%.

Un sistema bancario di ampie dimensioni al servizo dell’intera regione 

In Svezia operano poco meno di 120 istituti di credito. Tra essi i 4 gruppi maggiori accentrano il 70% circa delle attività totali: in ordine di dimensione, Nordea, SEB, Handelsbanken, Swedbank. Tra questi quattro gruppi Nordea è decisamente il più importante, con un attivo di bilancio non troppo diverso dalla somma di quello degli altri tre.

Il rapporto tra attività bancarie e Pil è in Svezia particolarmente elevato (oltre il 400%, quarto nella Ue27); se si escludono le affiliate estere il rapporto si ridimensiona di circa due quinti, ma rimane comunque al di sopra della media continentale.

La proiezione estera appare pronunciata ma si tratta di una attività regionale piuttosto che internazionale: posto pari a 100 il totale dei prestiti dei quattro gruppi maggiori, a marzo 2013 il 54% risultava indirizzato verso la clientela nazionale, il 36% verso residenti negli altri paesi Nordici (Danimarca, Norvegia e Finlandia), il 4% verso operatori dei paesi Baltici (Lituania, Estonia e Lettonia). La quota dei prestiti in essere verso questi ultimi paesi, economicamente più fragili, è fortemente diminuita negli ultimi anni (tra il 2009 e il 2012, una contrazione superiore al 25%). 

Nel complesso, i grandi gruppi bancari svedesi privilegiano la funzione di banca commerciale: i prestiti agli operatori del settore non finanziario (residente e non) rappresentano (2012) in media il 57% del totale delle attività (62% in Italia), con un minimo del 50% ed un massimo del 70%. Il valore più basso è quello di Nordea, il gruppo relativamente più coinvolto nella turbolenza finanziaria del 2008-097. 

Nell’esaminare il contesto creditizio svedese è opportuno ricordare che all’inizio degli anni ’90 i paesi scandinavi si trovarono immersi in una crisi bancaria molto profonda. Si trattò sostanzialmente di tre crisi parallele, con poche occasioni di contagio (i flussi finanziari cross-border erano allora molto più contenuti), originate però da fattori simili (un processo di liberalizzazione causa di una crescita dei prestiti troppo rapida, a sua volta origine di una bolla immobiliare). La crisi durò circa quattro anni e ebbe il suo momento più acuto nel 1991-92 quando le perdite contabilizzate nei bilanci bancari rapportate al rispettivo Pil risultarono comprese tra il 2,8% della Norvegia e il 4,4% della Finlandia. La crisi fu risolta, soprattutto, attraverso un’ampia ricapitalizzazione pubblica il cui ammontare (rispetto al Pil) risultò pari al 2,6% in Norvegia, al 13,7% in Finlandia, al 4,4% in Svezia. Recuperata la necessaria stabilità e solidità, fu avviato un processo di riprivatizzazione che nel caso della Svezia ha visto nei giorni scorsi uno dei suoi ultimi passi.

Un sistema bancario ad elevata redditività ma con qualche seria criticità 

Da circa quattro anni i mercati finanziari valutano le azioni delle maggiori banche svedesi in modo più favorevole di quanto non avvenga per gli istituti di credito statunitensi e (ancor più) europei. Seppure inferiore a quanto conseguito negli anni precedenti il 2008, la redditività delle banche svedesi si conferma apprezzabile con un RoE elevato (intorno al 12% nel 2012), multiplo rispetto al 3-4% di un campione rappresentativo di grandi banche europee. 

A questo invidiabile risultato contribuisce in misura importante il livello molto contenuto del costo del rischio (15 punti base all’ultima rilevazione), una situazione che secondo la Banca Centrale dovrebbe risultare confermata anche nel triennio 2013-15. Relativa fonte di preoccupazione è l’esposizione verso le imprese della Danimarca e verso quelle del settore cantieristico (in larga parte ubicate in Norvegia). Il prezzo degli immobili ha smesso di scendere ma rimane comunque relativamente elevato se considerato in una prospettiva storica. 

Il quadro macroeconomico complessivamente favorevole del Paese e di gran parte della regione costituisce l’argomento più importante a favore delle banche svedesi. 

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Come in evidenza anche nell’ultimo Rapporto sulla Stabilità Finanziaria, le grandi banche svedesi presentano alcuni seri squilibri, tra i quali una dipendenza assai elevata dal mercato interbancario internazionale, ovvero una base di depositi molto inferiore al volume dei prestiti erogati. A fine 2012, il rapporto percentuale tra prestiti e depositi relativamente alla clientela non finanziaria risultava pari in media a 185, con due dei quattro gruppi maggiori ampiamente al di sopra di quota 200. La provvista in valuta estera sul mercato interbancario internazionale risulta così molto importante: misurata rispetto al Pil, è passata dal 20% circa nel 2003 a poco meno del 60% nell’anno in corso. 

La banca centrale, consapevole di questa vulnerabilità, è intervenuta imponendo alcuni vincoli ai gruppi maggiori, alcuni già conseguiti, altri ancora da raggiungere. Oltre al rispetto di alcuni obblighi informativi, tra i requisiti già raggiunti è certamente importante ricordare quello di un livello del Liquidity Coverage Ratio non inferiore a 100. Si tratta di un’applicazione anticipata delle norme di Basilea 3 che prevedono quota 60% entro inizio 2015 con un incremento del 10% in ciascuno dei quattro anni successivi in modo tale da raggiungere un valore del 100% a inizio 2019. Alle maggiori banche svedesi si chiede in sostanza di detenere riserve liquide di importo adeguato a fronteggiare una inaspettata (stress scenario) riduzione netta delle passività della durata di 30 giorni. La banca centrale (Sveriges Riksbank) ha anche richiesto che il requisito del 100% sia rispettato separatamente per ciascuna delle due valute estere principali (euro e dollaro statunitense). 

Non ancora conseguita, invece, quota 100% per l’altro indicatore di liquidità (NSFR, Net Stable Funding Ratio) che mira a monitorare (nella prospettiva di un anno e in un contesto di stress) l’equilibrio tra le attività con ridotta liquidità e la provvista a lungo termine. Solo uno dei quattro maggiori gruppi svedesi (Swedbank, il più piccolo) ha conseguito questo obiettivo; gli altri tre, invece, si posizionano ancora ampiamente al di sotto del 90%, con pochi progressi nell’ultimo anno. 

Contestualmente, Riksbank ha imposto il conseguimento entro la fine del prossimo anno di un rapporto di patrimonializzazione CET1 (Common Equity Tier 1) non inferiore al 12%. Basilea 3 prescrive (entro inizio 2019) un livello minimo del 4,5%, incrementato da un buffer aggiuntivo pari al 2,5% dell’attivo ponderato; in caso di eccessiva crescita dei prestiti le autorità possono richiedere la costituzione di una riserva (buffer) anticiclica per un ulteriore 2,5%. Il target del 12% richiesto dalle autorità svedesi è quindi molto elevato, superato in Europa solo dalla Svizzera (limitatamente ai soli due gruppi maggiori, possibili origine di instabilità sistemica). Alla verifica più recente, tre dei quattro grandi gruppi svedesi erano al di sopra del 12%, con il quarto poco al di sotto. 

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