Dal rischio inflazione al rischio deflazione
Il forte processo di rallentamento della crescita dei prezzi, che ha portato a diffuse preoccupazioni per gli effetti sull’economia di un’eventuale deflazione, è in corso ormai da oltre due anni. Sebbene comune a tutta l’area euro, questo fenomeno risulta in Italia più intenso di quanto si registri in Germania e Francia.
In Italia, da un’inflazione prossima al 4% nella prima parte del 2012 la crescita dei prezzi è divenuta negativa ad agosto (-0,2%). In Germania, la riduzione dell’inflazione si è fermata allo 0,8%, dal 2,9% che era stato toccato a ottobre 2011, mentre in Francia si è scesi leggermente più in basso (dal 2,7% di dicembre 2011 allo 0,6% di luglio, ultimo dato disponibile). In due anni e mezzo, l’inflazione francese e quella tedesca si sono ridotte di 2,1 punti percentuali, mentre quella italiana di 4.
Oltre la maggiore ampiezza della flessione, dallo scoppio della crisi il contesto inflazionistico italiano è stato caratterizzato da una profonda volatilità. Fino al 2006, una sostanziale stabilità portava l’inflazione ad oscillare poco sopra l’obiettivo della Banca centrale europea del 2%. Dalla seconda metà del 2007 è iniziata una fase di forti oscillazioni. Nei primi mesi della crisi si è assistito ad una rapida accelerazione che ha portato l’inflazione da valori inferiori al 2% a superare il 4%, il livello più alto degli ultimi diciotto anni. Dopo una brusca caduta, con l’inflazione misurata dall’indice armonizzato scesa in territorio negativo per la prima volta alla metà del 2009, la crescita dei prezzi ha nuovamente accelerato, avvicinandosi al 4% nella prima parte del 2012, per poi iniziare questa nuova fase di forte rallentamento. Questa variabilità trova una parte della spiegazione nelle rapide oscillazioni che hanno interessato l’energia. La crescita dei prezzi di questa componente ha prima superato il 15% su base annua nella seconda parte del 2008, per poi crollare con flessioni prossime al 15% alla metà del 2009, per poi nuovamente accelerare con incrementi ancora superiori al 15% nella prima parte del 2012 ed infine iniziare questa nuova fase di caduta, con flessioni intorno al 3%.
Un calo diffuso tra i diversi capitoli di spesa
Già nel 2009 l’Italia aveva sperimentato un forte rallentamento della crescita dei prezzi, con l’inflazione in territorio negativo. L’attuale fase presenta, però, alcune particolarità rispetto a quanto accaduto nella prima parte della crisi. Il rallentamento della crescita dei prezzi appare oggi più generalizzato e diffuso, rendendo il calo dell’inflazione degno di maggiore attenzione.
Ad agosto di quest’anno, la caduta dell’indice generale è il risultato di una flessione dei prezzi delle merci, una contrazione del 3,7% di quelli dell’energia e un aumento dello 0,3% di quelli dei servizi. L’effetto della componente energia appare molto meno forte di quanto registrato nel 2009, quando il -0,1% dell’indice generale si accompagnava ad un -14,6% dell’energia. Ad agosto 2014, il calo dell’energia fornisce un contributo negativo alla crescita dell’indice generale pari a solo lo 0,3%, quasi un quarto di quanto la stessa componente sottraeva a luglio 2009. Anche la flessione che oggi interessa i prezzi dei beni appare più contenuta, con un contributo negativo pari a meno della metà di quello di cinque anni fa. Il rallentamento dell’inflazione interessa, però, a differenza della prima parte della crisi, anche i servizi. Alla metà del 2009, la crescita dei prezzi relativi a questa componente si manteneva al di sopra dell’1,5%, mentre adesso ci siamo avvicinati allo zero.
Ad agosto 2014, quattro degli undici capitoli di spesa che compongono l’indice generale hanno registrato un’inflazione negativa. I prezzi degli alimentari si sono ridotti di quasi lo 0,5% rispetto allo scorso anno. Sul calo ha pesato la brusca flessione dei prodotti freschi, con i prezzi della frutta scesi a luglio, ultimo dato disponibile per le singole tipologie di bene e servizio, di quasi il 10%. L’inflazione è divenuta negativa anche nel capitolo abitazione, acqua, elettricità e combustibili e in quello dell’abbigliamento e calzature. Nel primo caso, il calo dei prezzi è il risultato di un’ampia flessione di quelli del gas e di una leggera contrazione degli affitti per l’abitazione, mentre in forte crescita si mantengono i prezzi per la fornitura dell’acqua e la raccolta dei rifiuti. Gli unici capitoli a registrare aumenti dei prezzi superiori all’1% sono quello dei servizi sanitari e spese per la salute e quello dell’istruzione.
Una deflazione che viene anche dall’estero
La caduta che interessa l’inflazione in Italia trova una parte importante della spiegazione nella flessione dei prezzi all’importazione. L’impatto della debolezza della domanda interna, sebbene evidente, risulta per ora meno significativo.
I prezzi all’importazione sperimentano una crescita negativa da oltre un anno. All’inizio del 2011, l’inflazione riferita ai prodotti acquistati dall’estero era superiore al 9%, guidata dalla componente energia, che con prezzi in crescita di quasi il 30% spiegava più della metà dell’aumento complessivo. Nei mesi successivi, l’inflazione importata ha rallentato, per poi divenire negativa. La flessione, dopo essersi avvicinata al 4%, è 72 settembre 2014 risultata pari ad oltre il 2% a maggio 2014, ultimo dato disponibile. Diversi fattori contribuiscono a spiegare l’andamento dei prezzi all’importazione. Negli ultimi due anni, una certa rilevanza ha assunto l’evoluzione del cambio. Tra luglio 2012 e maggio 2014 si è assistito ad un apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro superiore al 10%, che ha reso meno costosi gli acquisti dall’estero. Per i beni e i servizi importati, l’inflazione negativa interessa oggi tutti i raggruppamenti principali di industrie, risultando meno intensa per i beni di consumo (-0,7%) e per l’energia (-1,5%), che arriva a spiegare solo una piccola parte della flessione complessiva. Il calo dei prezzi si avvicina, invece, al 3% per i beni strumentali e per quelli intermedi, questi ultimi da soli spiegano quasi la metà della caduta dell’indice generale.Guardando i singoli settori di attività economica, a maggio solo il comparto del tessile e abbigliamento ha registrato una crescita, sebbene moderata, dei prezzi pagati per acquistare prodotti dall’estero. Tutti gli altri settori che compongono il manifatturiero hanno, invece, subito una caduta dei prezzi, con flessioni che hanno superato il 4% nei mezzi di trasporto e nei metalli. In alcuni comparti l’inflazione negativa importata è ormai diventato un dato quasi strutturale. Il settore dei metalli, che all’inizio del 2011 registrava crescite dei prezzi all’importazione prossime al 20%, è in deflazione da oltre due anni. Il periodo di prezzi negativi risulta ancora più lungo per i prodotti farmaceutici, con una flessione iniziata nella prima parte del 2011.
Inflazione negativa e deflatore del Pil
Parlando di deflazione, è necessario ragionare anche sull’impatto che la variazione dei prezzi ha sull’andamento del Pil in valore. A parità di quantità, prezzi in discesa si accompagnano ad una caduta dei valori correnti, rendendo ancora più complesso il rispetto degli obiettivi di finanza pubblica in termini di rapporto deficit/Pil e debito/Pil.
Prima di andare a guardare i numeri è, però, necessaria una precisazione. Per calcolare il Pil a prezzi correnti non viene considerato l’indice dei prezzi al consumo ma un altro indicatore, chiamato deflatore. Questa non è una semplice differenza terminologica, ma assume una rilevanza pratica. Per calcolare l’indice dei prezzi al consumo vengono considerati i prezzi di tutti i beni e servizi che compongono il paniere indipendentemente dalla loro provenienza. Tutto ciò fa sì che la riduzione del prezzo di un bene, sia esso prodotto internamente sia esso acquistato dall’estero, determina una spinta ad un rallentamento dell’inflazione generale, la cui intensità dipenderà dal peso che quel bene ha all’interno del paniere. Diversa la situazione per il calcolo del deflatore. Il Pil di un paese è uguale alla somma dei consumi, della spesa pubblica, degli investimenti e delle esportazioni. Da questo valore devono essere sottratte le importazioni, che non rappresentano beni o servizi prodotti internamente e, quindi, non devono essere ricompresi nel calcolo del Pil. Se accade che i prezzi delle importazioni scendono, a parità di quantità comprata dall’estero si ridurrà il loro valore, con un effetto positivo sul Pil. Per il calcolo del deflatore del Pil non è, dunque, irrilevante la provenienza del singolo bene. L’andamento dei prezzi all’importazione non si va ad aggiungere a quello degli altri beni o servizi come accade per l’inflazione, ma è come se venisse sottratto. Un’inflazione all’importazione negativa ha, quindi, un effetto di contenimento sull’inflazione al consumo ma spinge verso l’alto il deflatore, con un effetto positivo per il Pil in valore.
Per immaginare gli effetti della deflazione sui valori correnti, non è, quindi, corretto traslare la variazione dei prezzi al consumo direttamente sul Pil. È necessario andare a vedere quali sono le principali determinanti della minore inflazione. Il fatto che la tendenza verso la deflazione sia oggi anche il risultato di un calo dei prezzi all’importazione, piuttosto che il solo frutto della debolezza della domanda interna, assume, dunque, risvolti di particolare importanza.
Uno sguardo ai numeri aiuta a capire. In Italia, il rallentamento della crescita dei prezzi appare meno evidente se guardato dal lato del deflatore. All’inizio del 2012, il deflatore del Pil cresceva di quasi il 2% su base annua. Nel II trimestre 2014, l’aumento è risultato pari allo 0,7%. Un calo di poco più di 1 punto percentuale, che si confronta con i 4 persi dall’inflazioneQuesto andamento trova spiegazione nella differente crescita dei prezzi all’importazione. All’inizio del 2012 i prezzi al consumo aumentavano di circa il 3,5%, con l’indice dei prezzi relativo alle importazioni che cresceva di oltre il 4,5%. L’aumento del valore delle importazioni si accompagnava ad un contenimento della crescita del deflatore del Pil, che si fermava sotto il 2%, con una differenza negativa di oltre l’1,5% rispetto all’inflazione al consumo. Con prezzi all’importazione in crescita, l’effetto dell’aumento dei prezzi sul Pil risultava molto più basso di quello immaginabile guardando la sola inflazione. Nel I trimestre 2012, il Pil in quantità si riduceva dell’1,7% e quello in valore cresceva di solo lo 0,1%, mentre un’inflazione al consumo al 3,5% avrebbe fatto immaginare un aumento prossimo al 2%. La crescita dei prezzi all’importazione è poi gradualmente divenuta negativa, risultando pari a -2,9% nel I trimestre 2014 e a -1,6% nel II. Tutto ciò ha determinato un aumento del deflatore del Pil maggiore di quello dell’indice dei prezzi al consumo. Nel complesso dei primi 6 mesi di quest’anno il deflatore del Pil è aumentato dello 0,9%, mentre l’inflazione al consumo si è fermata allo 0,4%. Una differenza positiva tra la crescita del deflatore del Pil e l’inflazione al consumo pari a 0,5 punti percentuali rappresenta un elemento di particolare interesse se confrontato con il valore medio degli ultimi diciassette anni pari a -0,1%. L’effetto della variazione dei prezzi sul Pil è, dunque, risultato maggiore di quello immaginabile guardando la sola inflazione. Nella prima metà del 2014, mentre il Pil in quantità si è ridotto dello 0,3% nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente quello in valore è aumentato dello 0,6%. Un’inflazione al consumo dello 0,4% avrebbe portato a pensare ad una sostanziale stagnazione del valore corrente.
Uno sguardo al passato
Per completare il discorso, un ultimo aspetto merita di essere sottolineato. Come visto in precedenza, l’andamento dei prezzi in Italia risulta spesso differente da quello di Francia e Germania. Questa particolarità caratterizza la fase attuale di forte rallentamento dei prezzi, ma è possibile rintracciarla anche nel periodo precedente, quando a preoccupare non era la deflazione quanto il rischio che i prezzi potessero aumentare troppo rapidamente. Tra il 1996 e il 2012, l’Italia ha sempre sperimentato un aumento dei prezzi superiore a quello registrato nelle altre due principali economie dell’area euro. Nei quindici anni considerati, l’inflazione annua italiana è stata pari in media al 2,3%, a fronte dell’1,7% della Francia e dell’1,6% della Germania. Il differenziale tra l’inflazione italiana e quella degli altri due paesi è risultato positivo in tutti gli anni considerati, con la sola esclusione del 2007 per la Germania e del 2004 e 2010 per la Francia. Anche negli anni della crisi il nostro Paese ha sperimentato un’inflazione che nella media è risultata maggiore di quella degli altri due paesi, nonostante un indebolimento della domanda interna molto più intenso di quello francese e tedesco. Complessivamente, dal 1996 al 2012, l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 44% in Italia, 16 punti percentuali più della Germania e 12 più della Francia. Questa più rapida crescita dei prezzi è il risultato di dinamiche differenziate a livello di singola tipologia di bene e servizio, con alcuni aspetti di particolare interesse. La maggiore inflazione non è derivata da più alti costi energetici, quanto soprattutto dalla più rapida crescita dei prezzi degli alimentari, delle spese per l’abitazione e di quelle per i servizi sanitari.
Tra il 1996 e il 2012, i prezzi dell’energia sono aumentati in Italia complessivamente di quasi il 90%, a fronte del 110% in Germania, mentre quelli dei generi alimentari hanno registrato una crescita prossima al 40%, quasi 15 punti percentuali in più di quanto accaduto in Germania. Un contributo positivo alla maggiore inflazione è venuto, ad esempio, da latte, formaggio e uova, ma soprattutto dai prodotti vegetali. In sedici anni il prezzo di verdure e ortaggi è aumentato di oltre 40 punti percentuali in più di quanto registrato in Germania. Tra le spese per l’abitazione, cresciute di oltre il 70%, le famiglie italiane hanno dovuto affrontare aumenti significativi delle tariffe per la raccolta dei rifiuti, cresciute di quasi il 90%, oltre 50 punti più della Germania, e per la fornitura di acqua, queste ultime più che raddoppiate. Tra i diversi capitoli che compongono il paniere per il calcolo dell’inflazione, l’istruzione è l’unico nel quale l’Italia ha registrato un andamento dei prezzi più moderato nei confronti sia della Francia sia della Germania.
Una riflessione per concludere
Tutti questi numeri ci dicono quanto sia complesso il fenomeno dell’inflazione. Alcuni aspetti meritano di essere sottolineati.
Oggi ci si preoccupa soprattutto degli effetti negativi che un’eventuale deflazione potrebbe avere sulla crescita economica. Quanto sta accadendo in Spagna ci dice, però, che la realtà può essere anche molto diversa dalla teoria. In Spagna, i prezzi scendono, ad agosto l’inflazione è stata pari a -0,5%, ma l’economia cresce, trainata dai consumi che, secondo alcuni osservatori, traggono spinta da un recupero del potere d’acquisto dei redditi favorito proprio dal calo dei prezzi.Ci si preoccupa, inoltre, dell’effetto che un’inflazione in calo può avere sul rispetto dei vincoli del bilancio pubblico. I numeri dell’Italia ci dicono, però, che per capire quanto sta realmente accadendo non è sufficiente analizzare l’inflazione generale, ma è 102 settembre 2014 necessario guardarci dentro. Prezzi all’importazione che si riducono rendono l’impatto sulla crescita del Pil nominale meno grave di quanto sembrerebbe a prima vista.La lettura dei dati sull’inflazione è, inoltre, utile per sottolineare alcune criticità che caratterizzano il nostro Paese, oltre che per descrivere alcuni cambiamenti che ci interessano come risultato di sette anni di crisi.Confrontando il presente con il passato, emerge un aspetto di particolare interesse: oggi, che a preoccupare è la deflazione, i prezzi italiani scendono più rapidamente di quelli francesi e tedeschi; ieri, che a preoccupare era l’inflazione, i nostri prezzi crescevano più velocemente. Questo deve portarci a pensare che, forse, nel nostro Paese, qualcosa non funziona correttamente nel processo di formazione dei prezzi.Molto interessante appare quanto accade all’indice dei prezzi relativo al comparto abbigliamento e calzature. La flessione dei prezzi sta interessando i tessuti, gli indumenti, gli accessori e le calzature. Gli unici prezzi ad aumentare sono quelli dei servizi di lavanderia, riparazione e noleggio abiti. Queste dinamiche vanno oltre il capitolo abbigliamento e calzature: i prezzi per la riparazione degli elettrodomestici crescono di quasi l’1,5% e quelli per la riparazione di mobili, arredi e mezzi di trasporto di circa il 2%. Nonostante si tratti di un processo solo all’inizio, questi dati potrebbero essere rappresentativi di un cambiamento nelle abitudini dei consumatori, con una maggiore attenzione per i servizi di riparazione dei beni a disposizione a scapito dell’acquisto di prodotti nuovi. I prezzi dei primi possono, quindi, continuare a crescere, mentre le imprese che vendono prodotti nuovi sono chiamate ad una maggiore prudenza nella formazione dei prezzi, per cercare di contrastare la debolezza della domanda.