Inconsciamente, diceva Freud, ci sentiamo tutti immortali. Questo rifiuto di guardare oltre la siepe si estende a molti aspetti della vita collettiva. Pensiamo ad esempio che le nostre istituzioni siano eterne, che non ci saranno più guerre dalle nostre parti e che il ciclo economico in cui ci troviamo non finirà mai. E invece finirà.
Ogni volta che si esce da una crisi si pensa di avere capito tutto e ci si ripete che con buone e razionali politiche la ripresa potrà essere lunghissima e, perché no, perpetua. Ogni volta si ritiene di avere perfezionato le tecniche di risposta e di avere inventato nuovi sistemi di prevenzione delle crisi. Se poi una crisi dovesse proprio arrivare, ci diciamo, sono pronte o quasi pronte nuove mirabili armi, potenti e precise, che ridurranno al minimo l’impatto.
Dalla Grande Depressione degli anni Trenta siamo usciti scoprendo la spesa pubblica. Ne abbiamo però abusato, creando le condizioni per la crisi degli anni Settanta. Da quella crisi siamo usciti da una parte scoprendo la disciplina fiscale e monetaria e dall’altra con la globalizzazione. La disciplina ha però creato una sensazione crescente di stabilità, che ha prodotto a sua volta una propensione al rischio finanziario e alle bolle. La globalizzazione, dal canto suo, ha creato delocalizzazione ed eccesso di offerta. A questo si è risposto con politiche monetarie sempre più espansive che hanno alimentato bolle che, una volta scoppiate, hanno creato altre crisi.
Dopo il 2008-2009 ci siamo dotati di politiche macroprudenziali, di diecimila pagine (è il numero vero, non un modo di dire) di nuove regole per le banche, di Quantitative easing e di tassi a zero. Dopo sei anni di cure siamo in piedi, ma non scoppiamo certo di salute. La crisi di agosto ci ha fatto toccare con mano come qualche passo falso (in questo caso cinese) ci possa portare pericolosamente vicini a un rallentamento globale. La crescita debole, tollerabile in momenti normali, diventa pericolosa quando il ricordo del 2008 è ancora fresco perché può indurre facilmente a reazioni eccessive a sorprese negative.
Ora la situazione appare di nuovo sotto controllo. Le banche centrali hanno mostrato la loro disponibilità a reagire alle difficoltà. I mercati si sono ripuliti e hanno ritrovato equilibrio e perfino un po’ di ottimismo.
Da qui in avanti, tuttavia, ci muoveremo tutti al buio perché nessuno sa quanta benzina abbia ancora a disposizione questo ciclo. Nessuno è infatti in grado di misurare con precisione le risorse inutilizzate che sono, insieme alla produttività, la condizione per potere continuare a crescere senza inflazione. I modelli econometrici sono pieni di ruggine e vengono per di più nutriti di dati dubbi. Nessuno sa più bene dove finisca un sottoccupato che lavora da casa e dove inizi un disoccupato. Una volta tutto era più semplice.
C’è l’idea, probabilmente corretta, che la benzina sia ancora sufficiente, ma è una sensazione. La Fed ondeggia. Ogni tanto dà retta ai modelli, che le dicono di alzare i tassi di corsa, e ogni tanto dà retta a quello che vede affacciandosi alla finestra, malessere sociale diffuso e mercati perplessi. In questa nebbia la possibilità di commettere errori aumenta. È quindi più che doveroso, da parte dei policy maker, preparare un Piano B in caso di incidente. Se l’incidente sarà, mettiamo, tra cinque anni, ci sarà stato il tempo di raggiungere la piena occupazione (ovunque sia), di avere creato inflazione salariale e alzato i tassi di due-tre punti percentuali. A quel punto, in caso di crisi, si potrà dare una risposta tradizionale, riportando i tassi a zero e riaprendo i rubinetti del Qe.
Che fare però se, per disgrazia, accidente o esogena, l’incidente dovesse capitare quando i tassi sono ancora vicini a zero? A quali santi affidarci?
Il Qe è come un chemioterapico. Ha una certa efficacia ma intossica e ha crescenti effetti collaterali. Non può essere usato in permanenza. Il Qe, d’altra parte, appiattisce la curva dei rendimenti e, facendo salire l’inflazione, abbassa i tassi reali. Non può però, da solo, fare scendere i tassi a breve.
Come ha notato il capoeconomista della Banca d’Inghilterra, Andy Haldane, per riportare in vita un’economia in recessione conclamata sono stati mediamente necessari, nell’ultimo mezzo secolo, 4 punti percentuali di ribasso dei tassi. Come si fa a tagliare 4 punti quando i tassi sono a zero o poco sopra?
Il problema è molto serio, ma a mali estremi, estremi rimedi. Le risposte alla prossima crisi (se questa dovesse capitare troppo presto) sono la spesa pubblica, i bail in, l’equitizzazione del debito sovrano e il demurrage. Sono nomi nuovi di risposte antiche.
La spesa pubblica è stata usata l’ultima volta nel 2009-2010 sotto forma di ammortizzatori sociali e di ricapitalizzazione di banche. Solo in Cina è stata usata per opera pubbliche. Da allora è stata messa in frigorifero ed è oggi un tabù politico fortissimo tanto in America (grazie ai repubblicani) quanto in Europa (grazie alla Germania). Ci sono sottotraccia smottamenti della disciplina fiscale, ma per ora sono modesti. Alla prossima crisi la spesa pubblica rientrerà però in scena, ma in forma diversa, con più opere pubbliche e meno soldi per le banche.
Con la prossima crisi il dollaro tornerà a indebolirsi. I problemi, per l’Europa, saranno quindi raddoppiati. L’aumento della spesa pubblica creerà tensione nei paesi ad alto debito. A quel punto andrà fatta una scelta politica. La prima alternativa sarà un ulteriore passo avanti nella mutualizzazione del debito, la seconda consisterà nella trasformazione parziale del debito in equity (indicizzazione al Pil delle cedole e del capitale). La prima ipotesi appare ex ante più probabile, ma è difficile (e piuttosto inquietante) immaginare lo scenario politico di un’Europa di nuovo in crisi.
Con meno soldi pubblici per le banche, saranno chiamati alla ricapitalizzazione non solo gli azionisti ma anche gli obbligazionisti e i grandi depositanti. Si cercherà di fare le cose con criterio e in un modo molto meno cruento di quello usato a Cipro, ma non sarà piacevole.
Quanto alla politica monetaria, ci si lancerà audacemente nel mondo capovolto dei tassi negativi. Non la manciata di punti base di oggi (che le banche non scaricano sui depositanti e che costituiscono quindi, come nota Erik Nielsen, una tassa sulle banche) ma due, tre, quattro punti percentuali scaricati pienamente sui depositi. A quel punto si porrà però il problema del contante. Di fronte a un conto corrente penalizzato, ad esempio, del 4 per cento l’anno, molti chiederanno banconote e le chiuderanno in cassetta.
Come applicare i tassi negativi anche al contante?
Ci sono grosso modo tre soluzioni. La prima è l’abolizione del contante, con tanti auguri alla vecchina che non ha mai avuto nemmeno il conto corrente. La seconda è il demurrage, ovvero la tassazione del contante. Bernard Lietaer, uno dei padri dell’ecu, ne ha trovato traccia nei certificati di deposito di grano dell’antico Egitto, che perdevano valore con il tempo. Anche i bratteati, monete d’oro in uso nel mondo germanico dall’età del ferro, dovevano essere cambiati due volte all’anno in monete più piccole.
Questa operazione, chiamata Renovatio Monetae, fu particolarmente diffusa nel medio evo. Silvio Gesell, l’economista dilettante che concepì buona parte delle idee di Keynes con trent’anni di anticipo, immaginò invece un bollo a pagamento da applicare sulle banconote una volta alla settimana, una soluzione che fu applicata su scala regionale in Germania negli anni Venti e in America durante la Grande Depressione. Keynes disse che l’idea era buona ma volle trovarvi un difetto nella spinta che forniva all’acquisto di oro. Oro che fu prontamente messo fuorilegge da Roosevelt dopo la svalutazione del 1934. La terza soluzione, su cui lavora da anni Willem Buiter e che fu proposta per la prima volta da Robert Eisler nel 1932, è quella di trattare moneta bancaria e cartacea come due valute separate, con la cartacea che si svaluta stabilmente nei confronti della bancaria. Se prelevo 1000 euro in banconote il primo gennaio e se i tassi sono negativi del 4 per cento l’anno, il 31 dicembre, nel caso voglia versare i mille euro in banca, verrò accreditato di soli 960 euro bancari.
Se le banche centrali, da sempre gelosissime dell’oro, hanno chiuso finora entrambi gli occhi di fronte al bitcoin e hanno chiesto di non tassarlo, non è certo per simpatia verso l’ampio uso che ne fa la criminalità grande e piccola, ma per studiare il fenomeno come esperimento tecnico e monetario in vista di eventuali future applicazioni su larga scala del principio della moneta elettronica, lo strumento più efficiente per imporre a tutti i tassi negativi. Se le banche centrali continuano a essere più colombe dei mercati è perché guardano ogni giorno a questo tipo di futuro e lo trovano ben poco rassicurante. Certo, anche le politiche iperespansive hanno i loro rischi, perché favoriscono bolle che, quando scoppiano, creano pesanti effetti deflazionistici.
Il compromesso diventa allora quello di alzare i tassi con grande prudenza, di studiare con attenzione gli effetti di ogni rialzo e di mantenere i mercati sedati, facendo capire che c’è un limite verso l’alto che non va superato se i fondamentali non ne forniscono un motivo. Tutto lo sforzo delle banche centrali è volto a fare in modo che questo ciclo muoia di vecchiaia, con un sano pieno utilizzo dei fattori e una sana inflazione che lasci spazio a modesti rialzi dei tassi. Se così sarà, i bond subiranno qualche erosione ma non un bear market pesante. Le borse, dal canto loro, rifletteranno il fatto che l’America alzerà i tassi molto prima dell’Europa. In sintesi, dollari per la parte liquida del portafoglio e per azioni di crescita, euro per le borse europee.