Avevamo scritto, la settimana scorsa, che il petrolio sarebbe andato sottozero. Era una battuta, naturalmente, ma tre giorni dopo Bloomberg ha pubblicato la notizia che la qualità più scadente di greggio del Dakota quotava 50 centesimi, con la precisazione che i 50 centesimi li doveva versare il venditore, non il compratore. Piccati e risentiti, i giornali del Dakota hanno indagato a fondo e hanno scoperto che la fonte citata da Bloomberg aveva rettificato la quotazione, riportandola a un livello più dignitoso di un dollaro e mezzo sopra zero.
È perfettamente normale che le qualità basse di greggio, quelle troppo ricche di zolfo, abbiano un forte sconto rispetto alle qualità leggere, che richiedono meno raffinazione. Lo sconto cambia nel tempo, ma 20 o 30 dollari non sono così rari. Il greggio canadese, ad esempio, tratta a 20 dollari, quello iracheno arriva a 15 nella versione meno pregiata. Altri, come abbiamo visto, sono ormai prossimi a zero.
A questi livelli qualcuno comincia a levarsi di torno, liquidando le scorte e chiudendo i pozzi. È quello che sta succedendo in alcune zone d’America. Opec e Russia continuano invece a produrre più che possono, ma in questo caso sono i piani d’investimento ad essere tagliati. Se non si investe abbastanza da sostituire i pozzi man mano che si esauriscono la produzione presto o tardi cala.
La vecchia massima per cui il migliore rimedio per contrastare i prezzi bassi sono i prezzi bassi stessi non ha smesso di funzionare ma lavora, nella prima fase, molto lentamente, salvo accelerare nel tempo. Analisti molto avvertiti come Currie di Goldman e Morse di Citi, che hanno correttamente previsto il ribasso, parlano di un greggio a livelli più alti degli attuali già per la fine di quest’anno. La stessa cosa, del resto, la ribadisce da giorni l’Arabia Saudita, il paese che ha voluto l’accelerazione del ribasso e che ora vuole la stabilizzazione e una moderata ripresa nella seconda parte dell’anno.
Il crollo del petrolio e delle materie prime produrrà certamente una scia di vittime (bancarotte, ristrutturazioni del debito, recessioni nei paesi produttori) e continuerà a provocare vendite a qualsiasi prezzo di azioni e bond da parte dei fondi sovrani dei paesi produttori (una causa importante della discesa dell’azionario globale di questi giorni) ma continua a confermarsi come un problema di eccesso di offerta e non è in nessuna misura (come invece insinuano giorno e notte ribassisti e pessimisti) un problema di domanda.
La domanda infatti continua a crescere. I 23 milioni di auto venduti in Cina l’anno scorso (massimo storico) e i 18 venduti in America(massimo storico) non vanno a energia eolica e compensano, con la loro domanda di carburante, il calo del consumo per riscaldamento (l’inverno è molto caldo) e il ridimensionamento continuo dell’industria pesante cinese.
A proposito di auto, ribassisti e pessimisti insistono molto sul fatto che le vendite in America, quest’anno e i prossimi, saranno più basse. Questo terrà depresso l’intero settore manifatturiero e permetterà di potere tirare fuori la parola magica, recessione.
Guardiamo allora i dati. Il ricambio fisiologico richiede 15-16 milioni di nuove auto ogni anno, il livello di vendita del 2007.I 18 milioni del 2015 sono l’effetto degli acquisti rinviati a tempi migliori nel 2009-2010, quando si vendettero solo 9 milioni di auto. Che si torni a 15-16 è quindi normale e non può essere contrabbandato come l’anticamera di un nuovo 2008.
A fronte di questo declino, ben noto e già scontato, verosimilmente, nelle quotazioni di borsa del settore, c’è il fatto che chi cambierà la macchina, nei prossimi anni, la prenderà più grossa. È quello che succede sempre quando il prezzo della benzina è basso. I margini sui Suv sono notoriamente molto più alti di quelli sulle utilitarie, per cui i profitti del settore non subiranno necessariamente contraccolpi seri. Le vendite in Cina, d’altra parte, sono previste in costante aumento.
A proposito di Cina, gli stessi che considerano spazzatura le statistiche cinesi hanno storto il naso per il fatto che il Pil è cresciuto nel 2015 del 6.9 e non del 7 come previsto dal piano. Obiettivo mancato, hanno detto, crescita in continua decelerazione, gestione confusa e problemi strutturali intrattabili. Bene, i pessimisti saranno lieti di sapere che dal 2016 al 2020 la Cina mirerà a stabilizzare la sua crescita sul livello del 6.5 per cento l’anno.
Sempre meno crescita, quindi, ma su una base sempre più grande. Non sappiamo, ovviamente, se i policy maker cinesi riusciranno a conseguire il loro obiettivo, sappiamo però che faranno di tutto per raggiungerlo, come hanno fatto nel 2015 tra cori di gufi. Sarà terribilmente impegnativo, dal momento che si cercherà di non usare più la facile leva del credito a pioggia e di lasciare il più possibile al mercato il compito di produrre crescita, ma la dirigenza cinese ci si dedicherà con tutte le energie perché sa che su questo si giocherà il consenso e la legittimazione politica a governare.
Sul fronte dei mercati registriamo un certo esaurimento, quanto meno temporaneo, dei motivi di ribasso. Negli ultimi giorni si è scesi per inerzia e non per ulteriori notizie negative. Gli utili usciti in America non hanno riservato finora brutte sorprese e sono stati anzi spesso migliori del previsto. Ora non c’è da augurarsi un brusco rimbalzo (più tipico dei bear market che dei mercati normali) ma una stabilizzazione e un graduale ritorno alla normalità alimentato da un flusso di dati rassicuranti.
L’intervento delle banche centrali è un elemento centrale di questa stabilizzazione. Draghi ha dato un primo forte messaggio, indicando la disponibilità verso misure monetarie più radicali e dissipando l’aria mefitica che era andata accumulandosi sul sistema bancario italiano (in parte ad arte).Ricordiamo che l’Italia e Brexit sono in cima alla lista dei punti deboli dell’Europa in molte delle previsioni più negative sul 2016. Accelerare la soluzione dei problemi delle banche italiane (senza per questo regalare o svendere i loro attivi) significa togliere una mina lungo il difficile percorso che l’Europa dovrà affrontare quest’anno.
Quanto alla Fed, chi invoca un’autocritica per il rialzo dei tassi di dicembre e un rapido ripensamento deve portare pazienza. Ci sono prima di tutto motivi di immagine per cui una banca centrale non può ammettere di avere sbagliato solo perché il mercato l’ha presa male. Ci sono poi ragioni di sostanza. Dudley dice che nulla è cambiato rispetto a dicembre e che il mercato, come al solito, se la suona e se la canta da solo.
La verità, probabilmente, sta a metà strada. La crescita americana si è indebolita e la discesa delle borse può ritardare ulteriormente una riaccelerazione. Dall’altra parte, però, è giusto chela banca centrale aspetti di vedere qualche altra settimana di dati reali prima di cambiare la sua strategia.
Quello di cui possiamo essere certi è che questa Fed, molto più colomba che falco, cercherà in tutti i modi di non cadere nella trappola del 1937(stretta monetaria prematura e ricaduta nella recessione) e procederà con la massima prudenza. Possiamo anche essere tranquilli sul fatto che non ci sarà, per l’economia americana, la doppia bastonata di un dollaro forte e di tassi in rialzo. Se infatti il dollaro si rafforzerà ancora la Fed non alzerà i tassi (o lo farà con esasperante lentezza). La Fed, come in dicembre, alzerà solo se sarà sicura che questo non faccia salire il dollaro.
Se il dollaro resterà fermo (come pensiamo) la Cina avrà meno problemi a mantenere stabile il renminbi, toglierà un motivo a chi vuole portare i suoi soldi fuori dal paese e darà una ragione di ansia in meno ai mercati internazionali.
Molti tra gli hedge fund più aggressivi aspettano una discesa ulteriore del10 per cento per entrare massicciamente. Vedremo se i mercati si offriranno di accontentarli o se li lasceranno a bocca asciutta. In ogni caso è di conforto sapere che esiste una linea di supporto di compratori, sia pure sotto i livelli attuali.
Nel frattempo, nei portafogli, si può iniziare a lavorare per irrobustire la qualità degli attivi, tanto azionari quanto obbligazionari. Se il2016 sarà la classica correzione che accade a due terzi di un ciclo economico(quando si pensa erroneamente che il ciclo stia per finire) i titoli più solidi avranno ottime possibilità di recupero quando ci si accorgerà che il mondo, a bufera passata, sarà restato in piedi.